Via Pasquale Almerico |
Da lunedì 25 marzo la città di Palermo ha la via Pasquale Almerico, vittima innocente di mafia. Una intitolazione voluta dal sindaco Leoluca Orlando e dalla sua giunta, condivisa con i familiari e gli amici di Almerico, con l'amministrazione comunale di Camporeale, che hanno partecipato con commozione alla cerimonia. La strada (ex via dell'usignolo) si trova nella borgata di Bonagia, dove già tante strade sono state intitolate a vittime innocenti di mafia. In primo luogo i sindacalisti della Cgil, caduti sotto il piombo mafioso nel secondo dopoguerra. Insieme a loro adesso c'è pure Pasquale Almerico, il cattolico democratico che sognava libertà, democrazia, lavoro e sviluppo per la sua gente e per questi obiettivi ha sacrificato la sua giovane vita. GUARDA LE FOTO DELL'INAUGURAZIONE DELLA VIA
LA MORTE ANNUNCIATA DI PASQUALE ALMERICO
di Dino Paternostro
Quella sera del 25 marzo
1957, la televisione italiana trasmetteva – ovviamente in bianco e nero - le
immagini della storica firma sul trattato del Mercato Comune Europeo. Ma,
allora, ad avere il “piccolo schermo” in casa erano in pochi e la gente si
accalcava nei circoli o nelle sale parrocchiali per non perdersi lo storico
avvenimento. Accadde così anche a Camporeale, paese agricolo di 7 mila
abitanti, che da appena tre anni aveva “lasciato” la provincia di Trapani, per
aggregarsi a quella di Palermo. In prima fila, al circolo “Italia”, c’era
Pasquale Almerico, un maestro elementare, segretario della locale sezione D.C.,
che da 24 mesi era stato sindaco del paese. Almerico, 43 anni, scapolo, era un
cattolico democratico e una gran persona perbene, che sognava un destino
diverso per la Sicilia
e per il suo partito. Finita la trasmissione, uscì dal circolo insieme a suo
fratello Liborio, per fare quattro passi. Arrivato in via Minghetti, però, si
accorse di essere stato circondato da cinque uomini a cavallo, armati di mitra,
che cominciarono a sparare all’impazzata. Trenta, quaranta secondi di fuoco sul
corpo del sindaco e di suo fratello, che caddero a terra in una pozza di
sangue. A quel punto, uno dei killer scese da cavallo e si avvicinò con la
pistola in pugno a Pasquale Almerico, sparandogli a bruciapelo per ben 7 volte:
i “colpi di grazia”. Poi finì la luce e la strada piombò in un buio spettrale,
rotto solo dalle urla disperate della vittima designata, del fratello e di
altre persone che si erano trovate casualmente a passare. In lontananza, il
rumore degli zoccoli dei cavalli sui quali si stavano allontanando i killer.
Tornata la luce, lo spettacolo sul luogo dell’agguato era davvero
raccapricciante: Pasquale Almerico, colpito da 104 colpi di mitra e da 7 colpi
di pistola, giaceva a terra agonizzante; un giovane passante, Antonio Pollari,
era morto, mentre erano rimasti feriti il fratello Liborio, un ragazzo, una
ragazza ed una persona anziana.
«Quando arrivai, avevano
già caricato Pasqualino a bordo di una macchina, perché avrebbero voluto
condurlo all’ospedale di Palermo. Nessuno ancora capiva che quel povero corpo
era stato ferito da centinaia di proiettili, che la sua vita correva via
irreparabilmente», raccontò nel gennaio 1984 ad una giornalista de “I
Siciliani” Maria Saladino, instancabile operatrice sociale, che gestiva diversi
centri di accoglienza per bambini disagiati. E aggiunse con le lacrime agli
occhi: «Riuscii ad infilare la testa nel finestrino: era pallidissimo ed aveva
sangue dappertutto. Pasqualino, gli dissi, prega insieme a me: “Gesù mio,
misericordia, Gesù mio, misericordia”. Lo udii ripetere quelle parole. Poi non
disse più nulla. Gli afferrai la mano, probabilmente morì in quell’attimo».
Ma perché, quella sera di
marzo di 62 anni fa, il cattolico democratico Almerico fu assassinato così
barbaramente? Perché i killer si accanirono contro di lui con un volume di
fuoco che sarebbe stato sufficiente a sterminare un’intera compagnia di
soldati? Perché un uomo onesto, incorruttibile e coraggioso aveva scatenato
tanto odio? Secondo la prima Commissione antimafia, a decretarne la morte era
stato il potente capomafia del paese, “don” Vanni Sacco, a cui il “piccolo”
maestro elementare aveva osato negare la tessera della Democrazia Cristiana. Un
oltraggio al “padrino” e, più ancora, un ostacolo serio al processo di
penetrazione della mafia nel partito scudo-crociato. Ma gli ostacoli “don”
Vanni era solito spazzarli via a colpi di mitra, come aveva già fatto il 1°
aprile del 1948 col segretario della Camera del lavoro, il socialista Calogero
Cangelosi, che si era messo in testa di togliere la terra agli agrari per darla
ai contadini. Allora la fece franca. Stavolta, però, Sacco venne arrestato con
l’accusa di avere ordinato l’assassinio di Almerico. All’Ucciardone rimase solo
qualche giorno, perché poi fu trasferito all’ospedale della “Feliciuzza” di
Palermo (un altro “Grand Hotel” della mafia), fino all’assoluzione per
insufficienza di prove. E, per anni, la mafia di Vanni Sacco sarebbe rimasta
padrona assoluta del paese. Solo nel 2001, l’Assemblea Regionale ha ridato
“l’onore” a Pasquale Almerico, inserendolo nel lungo elenco dei caduti “per la
libertà e la democrazia” in Sicilia.
Chi ricorda più Pasquale Almerico? Poche
persone. Una vecchia storia, una storia di mafia, di cui non vale la pena
parlare. Meglio archiviare tutto e pensare al futuro, sembra essere il
leit-motiv del Terzo Millennio. Uno che non potrà mai dimenticare è sicuramente
il nipote Aldo Pisciotta, figlio di Rosaria, la sorella “del cuore” di Pasquale
Almerico. «Anche se allora avevo appena nove anni – dice - ricorderò sempre la
sera dell’omicidio. Mio zio era in piazza ed io gli gironzolavo intorno per
farmi vedere. Sapevo che, se mi avesse visto, nelle mie tasche sarebbe finito
qualche spicciolo, necessario per comprarmi le figurine di Tarzan. E mi vide.
Ma, qualche minuto dopo, mentre uscivo dal negozio con le figurine in mano,
sentii il crepitare dei mitra. Non compresi. Mi sembrò che fosse scoppiata la
ruota di qualche motorino. Solo il giorno dopo appresi la tragica verità, che
per tutta la notte i miei mi avevano tenuto nascosta».
Pisciotta è un funzionario di banca in
pensione. Tra la fine degli anni ’70 e la metà degli anni ’80, è stato pure lui
sindaco democristiano di Camporeale. E, come lo zio, guardava con attenzione la
sinistra DC, quella di Piersanti Mattarella. «Lo zio Pasquale era una persona
straordinaria, buona, un maestro che adorava i suoi bambini. Ma dovette
scontrarsi con una realtà più grande di lui e ne rimase schiacciato», spiega
Pisciotta. La dura realtà con cui dovette fare i conti, Pasquale Almerico l’ha
raccontata in un memoriale, acquisito dai giudici, che però non fu sufficiente
per far condannare i suoi assassini.
In quegli anni, in paese comandava il capomafia
Vanni Sacco, che fino al 1957 era stato liberale. Poi capì che quel vecchio
partito di destra non aveva futuro e si sentì “irresistibilmente” attratto
verso la DC. Bussò ,
quindi, alla sezione di cui Almerico era segretario e chiese la tessera per sé
e per altri 300 individui come lui. In sostanza, la mafia aveva deciso di
mettere le mani sullo scudo-crociato di Camporeale. Almerico respinse con forza
la richiesta e da quel giorno cominciò a morire. Arrivarono le prime minacce,
ma il piccolo-grande uomo non si perse d’animo. Scrisse un lungo e puntiglioso
memoriale indirizzato a Nino Gullotti, segretario della DC siciliana, del cui
contenuto mise pure a conoscenza uno dei “giovani turchi” dello scudo-crociato
palermitano, Giovanni Gioia. Almerico spiegò come il partito a Camporeale
rischiasse di essere conquistato dalla mafia e come lui corresse il pericolo di
essere assassinato da un giorno all’altro. Nessuno gli rispose o gli diede
ascolto e, il 25 marzo 1957, fu assassinato davvero. «L’onorevole Gioia non
batté ciglio e proseguì imperterrito nell’opera di assorbimento delle cosche
mafiose nella Dc», scrisse nel 1976 Pio La Torre nella relazione di minoranza della
Commissione antimafia. E, quindi, Vanni Sacco venne accolto con tutti gli onori
nello scudo-crociato, diventando «un perfetto e stimatissimo democristiano in
un territorio nel quale il politico di maggiore rilievo era stato, e sarebbe
ancora rimasto per lungo tempo, un prestigioso uomo di governo del livello di
Bernardo Mattarella, mentre la regia delle relazioni
politico-affaristiche-mafiose sarebbe sempre più spettata a due potenti esattori
delle imposte, i cugini Ignazio e Nino Salvo, futuri pilastri della corrente
andreottiana», scrive Giuseppe Carlo Marino ne “I Padrini”.
Vanni Sacco a Camporeale si era affermato come
capomafia al servizio degli agrari, fino a diventare nel 1944 il “dominus”
dell’ex feudo “Parrino”. Aderì per lungo tempo al partito liberale, sostenendo
Vittorio Emanuele Orlando, che rappresentava nel territorio di Camporeale,
“curandone” le campagne elettorali. Riuscì a passare indenne dal ventennio
fascista, Mantenne per lunghi anni un rapporto privilegiato con l’arcivescovo
di Monreale, monsignor Ernesto Eugenio Filippi. Caduto il fascismo, don Vanni
si diede da fare per tenere “l’ordine” nelle campagne contro il pericolo
“rosso”, rappresentato dal movimento contadino guidato dal sindacalista
socialista Calogero Cangelosi. Prima lo minacciò, poi tentò di allettarlo con
la promessa di un lavoro molto remunerativo negli Stati Uniti, infine lo fece
assassinare a colpi di mitra la sera del 1° aprile 1948.
A Camporeale, in quegli anni, nacque una
Democrazia Cristiana “anomala”, per merito del giovane parroco Ferranti e di un
gruppo di cattolici democratici, decisi a non transigere con la mafia. Una
scelta che a Vanni Sacco non piacque per niente. Dapprima i suoi uomini
“consigliarono” a questo gruppo di sognatori di lasciar perdere. Risultati vani
i consigli, passarono alle intimidazioni: la notte del 26 maggio 1946
scaricarono raffiche di mitra contro la canonica del giovane parroco,
costringendolo a fuggire e a rifugiarsi a Monreale. Chiese protezione
all’arcivescovo, ma monsignor Filippi lo costrinse ad accettare le condizioni
di “pace” di don Vanni Sacco: tornare a Camporeale su una macchina
scappottabile, seduto al fianco del boss.
Nonostante tutto, il gruppo di cattolici non si
diede per vinto e, nel 1955, riuscì ad eleggere sindaco il maestro elementare
Pasquale Almerico, che due anni dopo sarebbe stato platealmente assassinato.
Accusato dell’omicidio, ma poi assolto per insufficienza di prove, il “padrino”
riuscì ancora per qualche anno a governare “Cosa Nostra” del suo paese. Poi si
ritirò, ritagliandosi il ruolo di “consigliere”. Morì nel suo letto il 4 aprile
1960, con il conforto religioso e onorato dal suono delle campane della
Matrice, di cui aveva presieduto l’inaugurazione.
Confessò Maria Saladino nel 1984: «E’ stata la
morte così crudele, così ingiusta di Pasqualino Almerico che mi ha portato a
fare tutto quello che ho fatto. Non può, non deve esistere al mondo gente tanto
feroce, non si può uccidere così un essere umano, solo perché vuole lottare per
gli altri esseri umani. Ora io sto lottando, mi illudo di lottare perché i
bambini di questo paese crescano in un modo migliore, incapaci di violenza e
crudeltà. Tutti questi istituti, queste organizzazioni a favore dei ragazzi
poveri, dei piccoli delinquenti, di ragazzine in via di perdersi, che ho
cercato di creare, sono tutte cose, ricchezze che ho trovato dentro di me dopo
la morte di Pasqualino. La sua morte è stata per me un’illuminazione».
Dino Paternostro
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