di MARCO BRACCONI
Fosse vissuto oggi, l’imperatore romano Claudio probabilmente non avrebbe
votato Salvini: per lui la rovina di Atene e Sparta fu " l’aver tenuto
lontani i nemici sconfitti in quanto forestieri". Eppure nemmeno i greci,
abituati a dividere il mondo tra gli abitanti della polis e tutto il
resto, avrebbero mai lasciato un naufrago in mare, negato l’acqua e il fuoco
allo straniero, rifiutato di indicare la strada al viaggiatore errante.
Maurizio Bettini, autore per Einaudi di Homo sum, indagine
sull’" essere umani" nel mondo antico, è la guida ideale per
comprendere come la cultura classica si rapportava a chi proveniva da oltre il
confine, alla donna, al bambino, all’uomo che oggi
chiamiamo migrante. «Lo ius soli (l’attribuzione di cittadinanza a
chi nasce sul territorio di uno Stato, ndr) è espressione latina ma
non esisteva in Grecia e a Roma, che tra l’altro avevano due modi molto
diversi, perfino opposti, di intendere la cittadinanza.
Gli ateniesi, per
esempio, non la attribuivano a nessuno e, in omaggio al modello mitico
dell’autochthonía, pretendevano dal cittadino l’essere " proprio di quella
stessa terra"; i romani invece la concedevano con maggiore facilità, se un
cittadino liberava uno schiavo questi diventava subito un romano, la provenienza
non era una discriminante rigida. Il primo è uno schema di chiusura, il secondo
di apertura ». In ogni caso entrambe le culture hanno qualcosa da dirci su ciò
che è necessario fare, anzi essere, per definirsi esseri umani: per
via filosofica o di ragion di Stato, da Virgilio che canta Didone in soccorso
di Enea alla fratellanza "global" di Seneca, l’hashtag #
restiamoumani non era affatto sconosciuto
all’antichità. Anzi.
Nel mondo classico il tema dei "diritti umani" è ribaltato
rispetto al mondo moderno. Non è il migrante, o il naufrago, che ha il diritto
di essere accolto, ma è chi soccorre che ha il dovere di farlo.
«Siamo in un mondo di obblighi, e sono obblighi di carattere soprattutto
religioso. È la divinità che chiede che la giustizia sia applicata nel mondo attraverso
l’accoglienza, il cibo, l’acqua e il fuoco. E questo schema resisterà anche nel
mondo cristiano, a lungo, fino all’Illuminismo».
Quali parole spiegano meglio l’idea di umanità di greci e romani?
« Philanthropía, termine greco che sta a indicare non "colui
che ama l’uomo", ma colui che ha nell’uomo il suo interlocutore
privilegiato, quello con cui "vuole avere relazioni". E
poi huminatas, che è ancora più interessante perchè da un lato
significa mitezza, comportamento buono, presupponendo che la vera essenza
dell’uomo consistesse appunto nell’essere generoso e giusto; ma humanitas
significa anche " cultura", l’avere letto, pensato,
studiato».
Anche qui torniamo al dibattito contemporaneo sulla cittadinanza, la
proposta di darla a chi conosce la lingua e ha completato un ciclo di studi in
Italia.
«Sì, e questo ci riconduce anche a chi dovrebbe concederla, la
cittadinanza. Pure chi governa e decide, per essere umano e dunque avere
l’humanitas, dovrebbe studiare».
Su quanto è dovuto all’uomo "in quanto uomo" Seneca e Cicerone
non la pensavano allo stesso modo.
« Seneca dice che per essere veramente umani non basta porgere la mano al
naufrago o dare da mangiare a chi ha fame, bisogna fare molto di più. Il
filosofo stoico ragiona in termini di vera e propria "fratellanza"
umana. Cicerone è invece più restrittivo sui criteri con cui valutare quelli
che chiama i communia, le cose che si devono concedere a tutti gli
uomini in quanto esseri umani. Per lui i
communia vanno concessi solo "a patto che non subisca danno chi
li concede", aggiungendo un po’ furbescamente che altrimenti non si
avrebbero più le risorse per quelli che sono più prossimi, i concittadini».
L’hashtag ciceroniano sarebbe stato #primairomani?
« Esatto, per lui esistono cose dovute ad ogni essere umano, ma prima
vengono i cives, quelli a sé prossimi».
Ci si scontra sulla cittadinanza per Rami, il ragazzo che ha salvato i
compagni sul bus incendiato in Lombardia. Per i romani esiste la
cittadinanza-premio?
«Certamente sì. Accadeva sia in casi individuali che collettivi: un popolo,
una città che avesse aiutato i romani in circostanze difficili, riceveva la
cittadinanza. Una cosa che in Grecia non poteva succedere, lì era riservata
solo ai figli dei già cittadini. E basta».
Romani più "aperti", i greci molto meno. Anche per questo Roma
resiste nel tempo più a lungo delle polis?
«Sicuramente sì. I romani stessi lo sapevano e lo dicevano. L’atteggiamento
inclusivo di Roma conduce a un Impero che si espande e trova via via le sue
forme di convivenza. Un universo chiuso porta inevitabilmente alle divisioni».
Ma in entrambe le culture è disumano non aiutare gli "erranti",
chi viaggia senza una chiara destinazione. E oggi le Ong finiscono sotto
inchiesta...
«Fa parte di quegli obblighi culturali e religiosi di cui parlavamo prima.
ma non è il solo filo che ci ricollega a oggi. È proprio la parola, ius
humanum: l’hanno inventata loro. E poi gli stoici, con la loro idea che
l’umanità sia una famiglia. E che sia stata la natura, prima di ogni forma sociale,
a farci parenti». ?
La Repubblica, 31 marzo 2019
Nessun commento:
Posta un commento