Palazzo d'Orleans, sede del governo regionale siciliano |
EMANUELE LAURIA
Il disvelamento del "sistema Montante" dà
ragione a Sciascia Ma la stagione precedente vide le mani dei boss sulla
Regione
Da contrada Noce, nelle campagne di Racalmuto dove Leonardo Sciascia stese
il suo atto d’accusa ai professionisti dell’antimafia, a contrada Altarello,
residenza di Antonello Montante a Serradifalco, la distanza è assai breve. Ed è
ancora più ridotto lo spazio temporale che separa il discusso editoriale dello
scrittore del "Giorno della civetta" dalla bufera che ha travolto
l’ex leader di Confindustria con il suo nutrito entourage di uomini delle
istituzioni, affaristi senza scrupoli e burocrati asserviti.
Diciamolo chiaramente: Sciascia nel 1987 sbagliò gli obiettivi (Paolo
Borsellino e Leoluca Orlando) ma colse perfettamente il fenomeno, quello di una
legalità brandita in modo improprio, usata come scala per il successo e la
carriera. Quella di "Nanà", leggendo i fatti siciliani degli ultimi
anni, si può definire una profezia che si avvera. Forse neppure Sciascia, però,
avrebbe potuto immaginare campioni dell’antimafia a tal punto organizzati in
sistema criminale, capaci non solo di pavoneggiarsi con lustrini e pennacchi,
non solo di favorire lo sgambetto agli avversari con un pedigree meno
celebrato, ma addirittura di diventare partito di governo.
Unico partito di governo.
Perché questo era diventata l’antimafia di Montante: una forza capace di
sostituire la politica, «di estrometterla da ogni funzione», per dirla con le
parole della relazione della commissione Fava, di gestire direttamente uomini e
risorse pubbliche. Gli episodi dei casting dei dirigenti da nominare fatti a
casa del presidente Montante, se non nascondessero una realtà amministrativa deprimente,
sarebbero addirittura esilaranti.
E la dicono tutta sull’atteggiamento di una politica che, giunta al
minimo storico di credibilità, aveva deciso di delegare a un potere
esterno. Salvo poi rimanere silente, attonita, priva pure del riflesso condizionato
del comunicato stampa di fiducia nella magistratura, quando il suo
rappresentante, il grande delegato con il ricciolo impiastricciato di gel, era
finito nei guai giudiziari.
Che stagione, ha vissuto la Sicilia. Che stagione di inganni e finzioni, rappresentata
da un industriale ambizioso e protervo difeso da esponenti delle
istituzioni ridotti a cortigiani. E lesti a rendergli omaggio e a sparare
attestati di mafiosità a chi non lo faceva.
Però, attenzione. Spogliato dall’impostura, l’ultimo decennio di cose
siciliane è poi così diverso dai precedenti? A pensarci, non tanto. In fondo,
il sistema Montante è stato un blocco di potere che, con l’etichetta
dell’antimafia, si è impossessato di alcuni settori della Regione, dalle
attivitàproduttive ai rifiuti. Altri blocchi di potere con le insegne del
partito avverso (quello della mafia), in passato, avevano messo le mani su
comparti diversi della Regione. A partire da una Sanità che a cavallo del
Duemila era diventata la terra di conquista diretta e indiretta di Cosa nostra,
il feudo di scorribande elettorali e affaristiche di governatori e prestanome
di Bernardo Provenzano. Una sola, seppur non trascurabile differenza: i
politici d’antan, figli della Dc, potevano essere complici o collusi del
malaffare ma decidevano in qualche modo le regole d’ingaggio. Sceglievano chi e
come trasportare dalla zona grigia della società all’eldorado regionale, in
nome della suprema merce di scambio costituita dai voti. Quello non era un
«sistema fuori controllo» (così la commissione ha invece definito la Regione di
Crocetta), perché i Cuffaro o i Lombardo il loro sistema lo controllavano
benissimo. Ma era un sistema marcio, come e più di quello di Montante. È bene
non dimenticarlo, nella legittima foga contro gli imbroglioni della lotta al
racket.
La Sicilia, immobile e sorniona, ha assistito nell’ultimo tratto della sua
storia a un mutamento genetico: i rubinetti della spesa che prima venivano
aperti dalla mafia sono poi stati azionati da una finta antimafia. E il rischio
che corre oggi l’opinione pubblica — incline a ricordare solo i mali più
recenti — è quello di rivalutare la stagione della "mafia bianca",
dei primari affiliati alle cosche, dei padrini che investivano sulle cliniche.
Per non dire delle mire di Cosa nostra sull’eolico. Il pericolo è un
ritorno alla base: perché il gioco del potere siciliano è un circuito chiuso. E
dopo la fumosa gimcana antimafia può tornare la pericolosa curva delle coppole.
La Repubblica Palermo, 21 marzo 2019
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