Rita Barbera |
SARA SCARAFIA
Prima di lei nessuna donna aveva ricoperto quest’incarico. Quando Rita
Barbera entra all’Ucciardone come vice-direttore di Orazio Faramo ha trent’anni
e due figlie. È il 1986, comincia il maxi-processo e la giovane vice-direttrice
si ritrova faccia a faccia con i boss di Cosa Nostra. «Calò, Madonia: nomi che fino a quel momento avevo letto solo sui
giornali». Oggi, trentatré anni dopo il suo primo ingresso, Rita Barbera lascia
l’Ucciardone nel quale era tornata da direttrice nel 2011. Va in pensione dopo
una carriera che ha attraversato gli anni più intensi della storia di Palermo,
dal maxi-processo alle stragi alla riscossa civica contro la mafia.
Com’è stato per una giovane donna trovarsi faccia a faccia con i boss di
Cosa Nostra?
«Per me fu un’esperienza fortissima. Ma devo dire che non ho mai avuto la
percezione che non mi considerassero un interlocutore all’altezza perché donna.
Erano sempre gentili, fin troppo. Le resistenze più grosse all’inizio le
incontrai col personale di polizia penitenziaria. Non c’erano molte donne nelle
carceri a quei tempi».
Come mai scelse di fare questa carriera?
«In realtà fu per caso. Dopo il liceo Umberto, mi iscrissi a
Giurisprudenza. Quando mi laureai, a 24 anni, ero già mamma della mia prima
figlia, Raffaella. Mia madre, un pilastro della mia esistenza, mi convinse a iscrivermi a un
corso per la preparazione del concorso in magistratura pagandomi una
baby-sitter. Lei gestiva una tabaccheria in via Leonardo Da Vinci, la zona in
cui sono cresciuta».
Voleva fare il magistrato?
«Pensavo di sì. Mentre studiavo — era nata anche la mia seconda figlia,
Costanza — bandirono questo concorso per vice-direttore di penitenziari e io mi
iscrissi per capire come funzionasse un concorso. Ero certa di non passare».
E invece lo vinse…
«Mi sembrò un segno e decisi di accettare. Mi spedirono a Parma. Io partiì da sola con le mie figlie piccole. Il carcere mi sembrò da subito
un mondo pieno di zone grigie. Ma il lavoro era esaltante. Nel 1985 tornai in Sicilia, a Marsala, e nel 1986 mi proposi per dare una
mano a Faramo all’Ucciardone che era nel caos per l’inizio del maxi-processo».
Era ancora il "grand hotel Ucciardone"?
«No, non erano più quegli anni. C’era la tensione del maxi-processo e ricordo che col direttore cercavamo
di non creare scontri per motivi stupidi, che ne so l’acquisto di un prodotto
invece che un altro. C’era la necessità di arrivare alla sentenza. Ma non
c’erano sconti, né trattamenti di favore».
Che ricordo ha dei boss di Cosa Nostra?
«C’è una sola strada per fare bene le cose in carcere ed è quella della
fermezza. Se le posizioni sono chiare, se non dai spazio ai compromessi, tutto
si può gestire. I detenuti si affidavano».
Le fecero mai richieste strane?
«Una sola volta, quando ero direttrice a Termini Imerese — ci andai nel
1991 — un boss mi chiese di poter fare il colloquio con la figlia, alla quale
avevano diagnosticato la leucemia, senza il vetro. Erano i primi anni del 41
bis. Gli dissi che avrei chiesto, che umanamente capivo le sue ragioni, ma che
difficilmente avrei potuto accontentarlo. Chiesi in effetti, ma mi dissero
di no. Lui capì».
Cosa accadde dopo le stragi?
«Io ero a Termini Imerese. Era un carcere di massima sicurezza, nel quale
arrivarono molti dei mafiosi più pericolosi: Michele Greco, i Madonia, Calò.
Noi dall’altro lato eravamo avviliti, arrabbiati. C’era grande sete di
giustizia, ma anche di vendetta. Il clima era teso.
Furono gli anni del 41 bis. Ma fu proprio a Termini che capì che ci doveva
essere un altro modo per far vivere la detenzione. Quando nel 1996 nacque
il Pagliarelli chiesi di andare».
Perché?
«Perché c’erano spazi dove poter fare le attività che avevo in mente: nel
1997 inaugurammo la prima biblioteca grazie all’iniziativa "un libro per
un detenuto". Nelle librerie che avevano aderito si potevamo acquistare
libri da destinare al carcere. Fu un successo. In quegli anni cominciammo anche
la scuola in carcere e cominciò pure la collaborazione con Lollo Franco : venne
in carcere perché il Comune offrì uno spettacolo e mi chiese di lavorare con i
detenuti. Gli dissi "proviamo"».
Quest’anno i detenuti dell’Ucciardone realizzeranno con Franco il carro del
Festino…
«Bellissimo. Negli ultimi anni all’Ucciardone è nato l’orto, il pastificio,
adesso anche la sartoria. Abbiamo inaugurato lo spazio verde nel quale i papà
possono incontrare i figli, abbiamo organizzato le partite di pallone sacerdoti
contro detenuti. La cosa più importante in un penitenziario è far passare il
tempo, riempirlo di cose utili. Io ci credo nella rieducazione. Il carcere è
già duro e tanto più tu fai amare la libertà tanto più diventa duro. Bisogna
esercitare una pressione al contrario. Per un periodo fui direttrice al
Malaspina: lì capii l’origine di tutto. Credo che il regime carcerario così
simile a quello degli adulti non sia una buona misura per i ragazzini. I
giovani hanno bisogno di fare delle cose accanto a persone che facciano vedere
loro che esiste un’altra strada».
Lei si è trovata di fronte mafiosi, condannati all’ergastolo per omicidio,
stupratori. Come si sospende il giudizio?
«Si sospende davanti all’uomo. Una volta mi chiese un colloquio la moglie di un detenuto in carcere per
aver ucciso la figlia. Mi raccontò la loro storia, mi disse che lui amava la loro
bambina. Pensai che non sappiamo niente delle storie delle persone. Ma questo
non vuol dire che non si debba essere rigorosi. Ci sono atteggiamenti che non possono essere tollerati: non ho mai
accettato soprusi nei confronti del personale carcerario».
Lei fu candidata alla Regione con i Ds nel 2006, capolista alla Regione
quando Rita Borsellino sfidò Cuffaro. Che ricordo ha?
«Fu bellissima e io presi quasi 3mila voti che non bastarono. Mi ricandidai
con la Finocchiaro, ma fu un’esperienza terribile. Piano piano poi mi
allontanai. Nessuno mi propose di restare».
Anche al Pagliarelli, la direttrice è una donna. Un caso o una tendenza?
«Statisticamente i concorsi li vincono le donne».
Essere donna l’ha penalizzata in questo mestiere?
«Non sono stata nominata dirigente generale, non so se per un pregiudizio
di genere o perché non ho cercato gli agganci giusti. Ma rimpianti non ne ho. Ho amato tantissimo questo lavoro».
La Repubblica Palermo, 31 marzo 2019
Nessun commento:
Posta un commento