Franco Zecchin |
«Eravamo in una salumeria. C’era la moglie della vittima che aveva visto
ammazzare il marito e non poteva uscire, perché avrebbe dovuto scavalcare il
corpo del marito.
Su quella scena sono arrivato con una volante della polizia perché eravamo
su un altro omicidio. A un certo punto tutti partivano di corsa e sono andato
anche io. Eravamo sopraffatti dal ritmo degli avvenimenti: c’erano due omicidi
al giorno, non ti si lasciava il tempo tempo di riflettere».
Di quella Palermo,
quella degli anni Ottanta, Franco Zecchin — che da ieri espone al Centro
internazionale di fotografia dei Cantieri 95 sue immagini scattate fra il 1975
e il 1994 in Sicilia — ricorda soprattutto l’atmosfera: ed è naturale, per un
membro nominé dell’agenzia Magnum, che questa si traduca in un’immagine.
Un’immagine cupa, in contrasto fra quella città e questa, rinata passando da
una primavera che per il fotografo milanese affonda le radici nella Pantera e
ancor più indietro nelle lotte per la terra, ma che oggi è giunta all’epoca
controrivoluzionaria, al necessario riflusso.
Partiamo da qui, dalla Palermo di oggi. Che città ha trovato, 25 anni dopo?
«Io ormai ho uno sguardo esterno, ormai posso restare sulla superficie».
In superficie cosa si vede?
«Si vede la vivibilità, per usare il termine che la giunta Orlando affidò a
Letizia Battaglia, che si occupava appunto della vivibilità urbana. La qualità
percettibile è notevolmente aumentata: provo stupore nel vedere parti del
tessuto urbano che erano quasi destinate a scomparire e adesso si riempiono di
vita, soprattutto nel centro storico. È uno dei grandi meriti di Orlando: è
qualche cosa di visibile, io passo nei vicoli e ricordo che c’erano le
transenne e ora vedo palazzi restaurati, vedo un fiorire di bar e ristoranti
nello spazio pubblico, aperti. Quando arrivai a Palermo, nel 1975, non c’era un
bar con i tavolini fuori».
Perché la colpiva così tanto l’assenza di tavolini all’esterno nel 1975 e
la sorprende la loro presenza adesso?
«Perché tutte le città sul mare del Mediterraneo hanno una vita fatta di
terrazze. A Palermo non c’era, e uno dei motivi principali secondo me era la
paura».
Una Palermo più cupa. Perché l’ha affascinata?
«C’erano degli aspetti più solari. Sono cresciuto a Milano detestando profondamente la città, e ritrovarmi
grazie a Letizia in un luogo nella quale la qualità della relazione è diversa
mi faceva sentire paradossalmente a casa. Questi contrasti la mostravano in
modo più percettibile».
Poi cosa è successo?
«Il ricordo più intenso sono ovviamente le stragi Falcone e Borsellino.
Tutti sapevamo che poteva succedere, ma quando poi è successo ci ha tanto
sconvolto che in fondo il fatto di aver potuto avere dei presentimenti non ha
tolto nulla alla sorpresa. Poi è stato sorprendente vedere come la città si è
ribellata e ha manifestato apertamente il suo dissenso. Quello è stato il
culmine di una presa di coscienza da parte della società palermitana: i
movimenti sono entrati nel Palazzo, ma del resto quella città aveva dato vita
alla Pantera».
Le proteste studentesche del 1989. In che modo sono collegate queste due
fasi?
«La Pantera era nata a Palermo prima che altrove perché questa città era un
laboratorio sociale e politico all’avanguardia a livello nazionale. Ai Comitati
dei lenzuoli non si arriva all’improvviso».
Sono figli della Pantera?
«C’è un legame fra tutte queste cose e che porta a Addiopizzo. Non so cosa sia diventata oggi Addiopizzo, ma alla nascita era un movimento
che ha avuto una sua originalità internazionale: in nessun’altra parte del
mondo è esistita una presa di coscienza di questo livello».
Andiamo ancora a ritroso. C’è il filo fra Pantera, lenzuoli e Addiopizzo. Ma da dove è nata quella
spinta?
«Con Letizia e Umberto Santino sono fra i fondatori del Centro Impastato.
Ci siamo ritrovati in una minoranza, una minoranza estremamente ridicola, che
aveva il coraggio di dire no, aveva il coraggio di dimostrare il dissenso. Non
il dissenso solo con quella che poteva apparire la parte criminale del sistema
politico-mafioso, ma il dissenso contro tutte le compromissioni espresse, ad
esempio, da Vito Ciancimino e Salvo Lima e che poi Giovanni Falcone è riuscito
a dimostrare. All’epoca erano pochi a dirlo. Questo, però, senza voler assumere
il carattere degli iniziatori: prima c’era stata l’occupazione delle terre,
prima ancora Portella della Ginestra. Non abbiamo inventato nulla: non voglio dire che la Pantera sia venuta da
questo, ma nella storia siciliana c’era il seme del dissenso e della rivolta
che portò ai lenzuoli».
E adesso?
«Non basta agire sulle coscienze e sulla cultura. Adesso rimane ancora da
affrontare il nocciolo della questione, che passa dall’economia e dalla
politica. Se l’economia rimane sotto il controllo dei gruppi che fanno affari
con la mafia, nulla cambia. Ma questo è molto difficile da costruire, anche perché servono paradigmi
alternativi».
Negli anni dei Comitati dei lenzuoli, come adesso, il sindaco era Leoluca
Orlando.
Cosa pensa della sua azione politica?
«Sono partito a gennaio del 1994 e non ho usufruito dei benefici dell’era
Orlando, che ha dato più spazio e più servizi ai cittadini. C’è stata una
rinascita culturale».
Che si traduce anche nei Cantieri che ospitano la sua mostra.
«Anche, ma non solo. È ovvio però che i fermenti della Primavera di Palermo
non possono continuare per sempre. Come in qualsiasi periodo rivoluzionario,
l’effervescenza ha una durata limitata nel tempo e si trasforma, si
irrigidisce, si formalizza. A quel punto i fermenti devono essere rimessi in
discussione».
È l’epoca della controrivoluzione, della controprimavera?
«Non lo so. Non ho vissuto i benefici di quell’epoca, quindi neanche la
reazione. Posso dire che la cosa più importante di quest’era Orlando è il Piano
particolareggiato del centro storico, che ha impedito la devastazione, ha
preservato la città da un nuovo "sacco". Questa è una cosa che
storicamente resterà. Cosa riserverà il futuro, ovviamente, è questione che
attiene a chi vive in questa città».
La Repubblica Palermo, 17 marzo 2019
Nessun commento:
Posta un commento