SALVO PALAZZOLO
La nuova vita da imprenditrice di Lucia in Sicilia
diceva di essere nullatenente
PALERMO - L’insegna del bistrot al numero 19 di Rue Daru, nel centro di Parigi, è una
dichiarazione di orgoglio: "Corleone by Lucia Riina". E all’ingresso,
un leone rampante che stringe un cuore, il simbolo della cittadina siciliana da
dove arriva la nuova imprenditrice che gestisce il locale: la figlia del capo
dei capi di Cosa nostra morto in carcere nel novembre 2017. «Vita nuova. E
presto i miei nuovi dipinti», ha annunciato su Facebook. Mentre il sito del
locale promette «autentica cucina siciliana-italiana da scoprire in un ambiente
elegante e accogliente».
Un investimento a tanti zeri, il vecchio "Daru restaurant" è
stato ristrutturato con cura: tavolini in marmo bianco, luci soffuse, sedie e
divanetti in legno con imbottitura verde scuro. E su una parete foto antiche di
Corleone, richiamano gli anni in cui il padre di Lucia, u zu Totò
Riina, era già il killer più spietato del Paese.
Chissà con quali soldi avranno gestito la ristrutturazione, Lucia e suo
marito Vincenzo Bellomo.
Perché proprio nei mesi in cui il patriarca era in fin di vita loro
facevano domanda al Comune di Corleone per ottenere il bonus bebè, attestando
di essere nullatenenti. Domanda rigettata.
Anche se ufficialmente Bellomo non ha mai avuto un lavoro, la sua carriera
di rappresentante è finita presto nonostante la raccomandazione recapitata con
un pizzino dal boss Salvatore Lo Piccolo all’altro illustre corleonese di Cosa
nostra, Bernardo Provenzano. Ora, invece, all’improvviso, la più piccola di
casa Riina — fino a qualche giorno fa solo pittrice che vendeva on line i suoi
lavori — si è trasformata in provetta ristoratrice. Con tanto di locale a pochi
passi dall’Arc de Triomphe, un posto perfetto per lanciare un marchio così
particolare. "Corleone by Lucia Riina". E su Facebook lancia anche «un
carissimo abbraccio». E giù tanti like. Come già era accaduto nel profilo di
Salvuccio, il terzogenito di casa Riina, che aveva addirittura scritto una
personalissima storia di famiglia, con tanto di comparsata nello studio di
Bruno Vespa per presentare il libro. Oggi, Salvuccio Riina risiede nella casa
di lavoro di Vasto, in Abruzzo, dopo che sono stati scoperti i suoi rapporti
con alcuni spacciatori di cocaina. Il più grande dei figli del capo dei capi,
Giovanni, è invece rinchiuso all’ergastolo. L’altra figlia femmina, Maria
Concetta, vive in Puglia col marito: anche loro sono molto social nel
rivendicare il diritto a una «vita normale». Ma resta il mistero del tesoro dei
Riina, che la procura di Palermo non ha mai smesso di cercare. E gli ultimi
spunti li ha offerti proprio il capo dei capi, intercettato in carcere nel
corso del processo "Stato-mafia": «Se recupero pure un terzo di
quello che ho, sono sempre ricco», diceva al suo compagno dell’ora d’aria.
Eccola la parola chiave: «Recuperare».
Recuperare il tesoro. Magari per aumentare i dividendi che periodicamente
arrivano a Corleone, dove vive la vedova del boss. Probabilmente, soldi di
affitti o società in mano a insospettabili. Una pista d’indagine porta in
Svizzera, dove Lucia è stata negli negli ultimi anni assieme al marito.
Intanto, c’è una gran fila davanti al bistrot "Corleone by Lucia
Riina".
Il ristorante è intestato ufficialmente alla società per azioni
"Luvitopace", con un capitale sociale di mille euro, presidente è un
tale PierreDuthilleul. Se chiami per una prenotazione, risponde un giovane
gentile che parla in perfetto italiano: si limita a dire che i proprietari sono
due francesi. E si trincera dietro un profondo silenzio quando si chiede della
signora Riina, che intanto dal suo profilo Facebook continua a chiedere il
rispetto della privacy. Ma il neosindaco di Corleone, Nicolò
Nicolosi, annuncia battaglia: «Il nome Riina accanto allo stemma di
Corleone non deve proprio starci. Chiederò l’intervento del ministero degli
Esteri». Maria Falcone, la sorella del giudice simbolo della lotta alla mafia,
allarga le braccia: «Lucia Riina è una cittadina libera. Spero solo che la
gente non sia così stupida da farsi abbindolare da un nome e da uno stemma».
La Repubblica, 9 gennaio 2019
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