Umberto Santino
Vorrei riprendere le riflessioni di Giovanni Fiandaca sulla decisione del
sindaco Orlando di non applicare le disposizioni del decreto sicurezza e avviare
la procedura per la richiesta del vaglio costituzionale su alcune norme del
decreto, cioè farsi processare, e mi riferisco in particolare alle
considerazioni su legalità e legittimità e sull’educazione alla legalità che ha
fatto da architrave del lavoro nelle scuole negli ultimi decenni. Come si
ricorderà, le attività cosiddette antimafia nelle scuole siciliane sono
cominciate in seguito a una legge regionale del giugno 1981, che disponeva
provvedimenti “per contribuire allo sviluppo di una coscienza civile contro la
criminalità mafiosa”. La legge veniva dopo l’assassinio del presidente
Piersanti Mattarella e cadeva in un periodo in cui imperversava la guerra di
mafia più sanguinosa nella storia della mafia.
Allora ad operare nelle scuole, utilizzando lo spiraglio offerto dalla
legge, eravamo in pochissimi, tra cui il Centro siciliano di documentazione
Peppino Impastato e la Cgil.
Abbiamo subito rilevato che considerare il fenomeno mafioso soltanto come
un fatto criminale era indice di un’analisi inadeguata, che ne ignorava gli
aspetti culturali, sociali e politici.
Bisognava attendere le stragi del ’92 e del ’93 perché queste attività
venissero estese a tutte le scuole d’Italia con la circolare dell’allora
ministra Iervolino sull’“educazione alla legalità”. La circolare definiva la
mafia come una “emergenza speciale della nostra società” e individuava in una
figura praticamente inesistente come il docente di educazione civica il
referente della “legalità”, come se gli altri docenti ne fossero dispensati.
Capitava di entrare nelle aule tappezzate di scritte come “Ricordati di
rispettare le leggi” e a incipit dell’incontro chi scrive poneva una domanda,
rivolta sia ai docenti che agli studenti: «dobbiamo rispettare tutte le leggi,
anche quelle di Hitler e Mussolini contro gli ebrei?». Da qui cominciava una
sorta di sperimentazione pedagogico-didattica per cercare di veicolare una
visione che distingueva legalità formale e sostanziale, ponendo il problema
della rispondenza di ogni singola legge quanto meno ai principi della
Costituzione, già da tempo sostanzialmente inapplicata e già allora soggetta ad
arrembaggi che ne adulteravano o stravolgevano lettera e senso. E proponevamo
che, per correggere in qualche modo il tiro, si ponesse accanto al sostantivo
“legalità” l’aggettivo “democratica”. Ma non si trattava solo di questo. In
primo luogo si poneva il tema dell’analisi della mafia che più che un’
“emergenza speciale”, una congiuntura transitoria, era un fenomeno sistemico,
più che un antistato era qualcosa di più complesso, con un piede fuori, avendo
un suo codice e una sua giustizia e non riconoscendo il monopolio statale della
forza, e un piede dentro le istituzioni e lo Stato, con le varie forme di
interazione, dal controllo del voto a un lungo percorso storico fatto di
connivenze e trattative.
Non so se e fino a che punto siamo riusciti in questa demistificazione
degli stereotipi, soprattutto quello dell’emergenza, tenendo conto che anche il
legislatore vi prestava orecchio, se è vero che la legge antimafia è venuta
dopo l’assassinio di Dalla Chiesa e le altre leggi dopo i grandi delitti e le
stragi, in una logica di reazione all’escalation della violenza mafiosa.
Ora il problema della dicotomia legalità-legittimità si ripropone con il
decreto sicurezza ritenuto incostituzionale in quanto viola e nega diritti
umani che si considerano inviolabili, anche se troppo spesso sono rimasti sulla
carta. Si è riproposto con l’incriminazione del sindaco di Riace Mimì Lucano e
ora con la presa di posizione del sindaco di Palermo, seguita da altri
amministratori. Sia Orlando che gli altri sindaci sono ben consapevoli che la
loro scelta viola la legalità formale e va incontro a conseguenze giudiziarie.
Ma una legalità che risponde a pulsioni emotive e incarna pratiche politiche
che replicano linguaggi e comportamenti che non è azzardato classificare come
razzisti, può essere contrastata e messa in discussione solo in nome di valori
che si ritengono irrinunciabili, anche in una stagione come questa in cui, di
fronte a problemi strutturali, come i grandi flussi migratori, si reagisce
alzando muri e chiudendo porti. Che da Palermo cominci una rivolta di civiltà è
una buona notizia e un augurio di buon capodanno.
La Repubblica Palermo, 8 gennaio 2019
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