Giulio Francese |
DANIELE IENNA
Aveva un’energia incredibile ed era un uomo che sorrideva alla vita.
Era capace di entrare in empatia con le persone: lo conoscevi una volta e
non lo dimenticavi più". Con questa immagine Giulio Francese ci descrive
suo padre Mario, ucciso quarant’anni fa da Cosa nostra in viale Campania,
mentre stava per raggiungere casa. «Mi spronava perché facessi questo mestiere.
A 15 anni cominciai a scrivere, occupandomi di sport. Al primo anno di
università scrissi per Diario, lì mi occupavo di giudiziaria e, così, ero
diventato in pieno suo "collega". Mi guidava nella professione e
capitava che leggesse i miei articoli al cancelliere del Palazzo di Giustizia
oppure al titolare del bar. Di lui ricordo la velocità nel battere i pezzi: la
macchina da scrivere sembrava avere il suono di una mitraglia».
Cosa si prova a essere figlio di Mario
Francese e, nello stesso tempo, a guidare in Sicilia il consiglio regionale
dell’Ordine dei giornalisti?
«Sento il peso e la responsabilità del nome che porto e quello di
presidente è un compito difficile, una sfida continua. Svolgo questo incarico
in una sede che è un bene confiscato alla mafia, dove spesso ricevo classi di
studenti in visita a cui voglio fare capire che i mafiosi non sono uomini
d’onore, ma del disonore. Spesso mi chiedo come Riina abbia potuto vivere
indisturbato nella villa accanto: qui i mafiosi si sentivano i padroni del
mondo, sguazzavano in piscina».
In cosa la Palermo del 2019 è rimasta
uguale a quella del 1979?
«Diciamoci la verità: la mafia non spara più, ma esiste ancora nel
territorio e, anche se di meno rispetto al passato, è ancora presente nella
nostra cultura. Lo dimostra il fatto che si continua a pagare il pizzo e che
c’è gente che si rivolge ai mafiosi per chiedere un favore oppure per farsi
restituire l’auto o la moto rubata. C’è una mafiosità di pensiero assai diffusa
che fa chiudere gli occhi e restare in silenzio per paura di essere tacciato
come "sbirro" se denunci. C’è ancora molto da lavorare, soprattutto
per le giovani generazioni».
Suo padre ha mai rappresentato, in
famiglia, i rischi che viveva facendo il suo lavoro?
«Eravamo consapevoli dei rischi, d’altra parte mia madre, mio fratello e io
abbiamo raccolto diverse telefonate anonime giunte a casa, del tipo: "Ora
l’ammazziamo". Ma mio padre ci scherzava sopra e riusciva a dissolvere le
paure come bolle di sapone. Ci diceva sempre: ‘Io faccio il mio dovere, non
devo temere nulla’. Una sera, io e mio fratello Fabio, dopo avere ascoltato al
telefono una minaccia contro mio padre, siamo andati ad attendere il suo arrivo
sotto casa. Stava tornando dal lavoro, ci veniva incontro, quando
all’improvviso si sono materializzate alle sue spalle due sagome: per fortuna
erano due poliziotti che vigilavano su di lui silenziosamente, a sua insaputa.
È stata l’unica volta in cui ho percepito la sua paura. Non per sé, ma per
noi figli. Tant’è che ci raccomandò di non uscire più di casa la sera. Poco
tempo prima del suo assassinio, mio padre mi chiese di prendere appunti sulle
cose da fare nel caso fosse morto. Liquidò in modo perentorio le mie
resistenze imponendomi di scrivere. Cose pratiche, amici a cui rivolgermi,
contributi per la pensione. Tutta roba che mi è tornata utile poco tempo dopo,
quando mio padre non c’era più».
Lo scorso anno la storia di Mario Francese
è diventata una fiction andata in onda su Canale 5. I vertici del Giornale di
Sicilia avevano di bloccare la messa in onda perché avrebbe potuto ledere
l’immagine del quotidiano. Qual è la sua opinione?
«Secondo me c’è stata una reazione esagerata. Tutto il baccano che si è
fatto è servito solo a fare pubblicità alla fiction. Comunque, è meglio un film
con polemiche piuttosto che il silenzio assoluto su mio padre, come è avvenuto
per troppo tempo senza che nessuno se ne scandalizzasse».
Ci sono domande senza risposta sul
"caso Francese"?
«A mio avviso sono rimaste delle zone d’ombra. A cominciare dall’attacco
sferrato dalla mafia al Giornale di Sicilia e da certi rapporti interni con
esponenti mafiosi venuti fuori nel processo, ma non sufficientemente chiariti.
Ai tempi c’erano un nuovo direttore e un nuovo capocronista e, con l’impegno di
mio padre, il giornale si era distinto nell’impegno antimafia. La testata subì
una serie di atti intimidatori. In un crescendo, a gennaio venne ucciso mio
padre. Cosa era cambiato? Erano saltati i vecchi assetti politici- mafiosi e se
ne stavano costituendo di nuovi? Quello a mio avviso è l’inizio di tutto, è da
lì che parte l’attacco su Palermo dei corleonesi».
Lei si è posto delle domande?
«Io mi sono sempre chiesto: mio padre poteva essere salvato? Qualcuno era a
conoscenza del grande pericolo che correva? Bisogna essere obiettivi: ancora
oggi c’è una grande difficoltà a parlare di questa storia, perché si vanno a
toccare certi fili scoperti. È come se tanti colleghi volessero restare
volutamente lontano da questa storia per non andarsi a infilare in un pantano.
Prova ne è il fatto che sulla mattanza di quegli anni c’è un fiorire di libri
scritti da giornalisti, dove la vicenda di mio padre viene solo sfiorata».
Torniamo al suo incarico all’interno
dell’Ordine dei giornalisti. Quali sfide affronta ogni giorno?
«Dalle minacce alla crisi occupazionale, sono davvero tante. Vorrei che si
recuperasse la convinzione dell’importanza del nostro ruolo, che richiede una
consapevolezza e una responsabilità: uno è giornalista sempre. Questo mestiere
va alimentato, con impegno, studio, passione. È inaccettabile che la precarietà
sia diventata sistema. È difficile intervenire, perché i colleghi hanno
difficoltà a denunciare altrimenti perdono il posto e temono di non operare
più. Ho proposto all’Assostampa di lavorare a un tavolo comune per cercare di
monitorare la situazione sul precariato e sulle retribuzioni vergognose di
molti colleghi. Ma non è solo l’Ordine o l’Assostampa a dovere risolvere il
problema. Vorrei che i colleghi comprendessero che anche loro devono fare la
loro parte, perché più siamo uniti e più siamo forti: da parte nostra c’è piena
disponibilità a lavorare insieme».
La Repubblica Palermo, 27 gennaio 2019
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