di AUGUSTO CAVADI
La questione di estrema attualità se, e come, accogliere nelle associazioni
di volontariato (cattoliche e non) persone che – dopo un periodo di detenzione
- devono svolgere servizi di utilità sociale non ammette soluzioni facili. Ogni
caso è un caso a sé e solo per pigrizia mentale e etica si può rispondere,
sloganisticamente, con un “sempre” e con un “mai”. Ciò che le associazioni
possono, e dovrebbero, fare è darsi una “carta” di criteri comuni in modo da
offrire agli ex-detenuti (specie se condannati per reati di mafia) un’immagine
per quanto possibile compatta, evitando la rischiosa differenziazione fra
“lassisti” e “rigoristi”.
Il primo di questi possibili “criteri” potrebbe essere la
sconfessione pubblica del proprio passato. Se chiedo di fare volontariato in un
gruppo il mio primo passo dovrebbe consistere in un’auto-presentazione sulle
ragioni che mi inducono a questa scelta: l’esperienza pluridecennale di
formazione degli operatori ci conferma che già in questo primo contatto non è
facile mentire. Certo tutti possiamo tirar fuori capacità istrionesche, ma per
un ex-affiliato di mafia (vero o presunto ex) non è per nulla facile dichiarare
in una pubblica assemblea di soci che rinnega la propria appartenenza a una
cosca.
Un secondo criterio dovrebbe prevedere l’assoluto divieto
di collaborazione, almeno nelle ore di volontariato, fra due ex-detenuti. Ciò
sia per ridurre le possibilità di condizionamento psicologico reciproco sia per
evitare che, agli occhi di terzi, si crei una qualsiasi forma di complicità fra
soggetti provenienti da esperienze negative comuni (specie se si tratta di
persone appartenenti a sodalizi di stampo mafioso).
Un terzo criterio potrebbe consistere nell’affiancamento, per
un congruo periodo di tempo, del neo-volontario con un operatore che già da
anni lavora in quel determinato settore. Dal punto di vista
giuridico-giudiziario, infatti, si può misurare il rispetto formale delle
regole (puntualità all’inizio e al termine delle ore di servizio; comportamento
corretto nei confronti dei colleghi e degli utenti etc.), ma un’associazione di
volontariato, come e in un certo senso più ancora di un’istituzione pubblica o
privata, deve guardare al merito, ai contenuti, alla qualità morale
dell’attività che viene prestata. Soprattutto quando si tratta di avere
contatti con bambini e ragazzi; di studiare insieme a loro commentando la
storia e i fatti di cronaca; di testimoniare un certo modo di guardare la
vita…è essenziale capire che cosa un ex-detenuto sta comunicando agli
adolescenti che, pur in buona fede (ovviamente nei casi migliori), intende
accompagnare nello studio, nello sport, nell’avviamento al lavoro.
Ma chi ci assicura che l’ipotetico volontario
“accompagnatore” abbia la maturità intellettuale e pedagogica per fare bene il
proprio lavoro e per aiutare l’ipotetico volontario “accompagnato” a farlo
bene? Qui si apre una delle ferite più eclatanti di tanto associazionismo,
cattolico e laico, italiano (soprattutto, bisogna amaramente riconoscere, da
Roma in giù): la mancanza, totale o quasi, di formazione iniziale e in
itinere. Se una persona mostra l’intenzione di dare una mano agli altri,
questo viene ritenuto già sufficiente per arruolarla: se poi è analfabeta, dal
punto di vista della psicologia o della comunicazione o dell’empatia, ciò viene
ritenuto irrilevante. Una ventina di anni fa, al Centro “Pedro Arrupe” di
Palermo, col direttore dell’epoca, Gianni Di Gennaro, decidemmo di
affiancare, alla Scuola di formazione politica, anche una Scuola di formazione
al volontariato. Dopo alcuni anni, le richieste scemarono: le associazioni
cittadine continuavano ad accettare nuovi volontari, ma questi non avvertivano
nessuna esigenza di preparazione né storico-sociologica né psico-pedagogica. Da
qui un quarto “criterio”: un ex-detenuto che chieda di prestare opera
volontaria presso un’organizzazione deve accettare di partecipare attivamente,
con gli altri associati, a incontri periodici di aggiornamento professionale
(relativamente al settore in cui opera) e di supervisione della sua attività.
Un’associazione che non preveda questi momenti di verifica, di approfondimento,
di interazione fra i componenti delle squadre farebbe bene a chiudere i
battenti e, in ogni caso, a non accettare nel suo seno inserimenti di soggetti
problematici.
Una volta stabiliti e rispettati questi criteri – e altri simili che
saranno suggeriti da chi ha esperienza sul campo – si potrà tentare la
difficile scommessa del reinserimento sociale di concittadini macchiatisi di
reati gravi e gravissimi. Con fiducia aprioristica sulle risorse di
riabilitazione di qualsiasi essere umano, ma con la lucida consapevolezza che
tali risorse dipendono dalla libera autodeterminazione di ciascuno. Per quanto
possa essere amaro ammetterlo, la libertà è una lama a doppio taglio. E le
possibilità che venga esercitata in una direzione riparativa e costruttiva
equivalgono, esattamente, alle possibilità che venga attuata a danno di sé
stessi e degli altri.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com
La Repubblica-Palermo, 15. 12.2018
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