SALVO PALAZZOLO
«I mafiosi sono in cerca di spazi di riabilitazione», avverte il
prefetto di Palermo Antonella De Miro. «L’ultimo episodio scoperto dalla
Procura deve fare riflettere: il capo della Cupola 2.0, Settimo Mineo, affidato
ai servizi sociali dopo l’ennesima scarcerazione, era riuscito addirittura a
farsi inserire in un’attività di volontariato della Chiesa di San Saverio
all’Albergheria. Aiutava a fare il doposcuola ai bambini, ostentava un
cambiamento che poi si è rivelato del tutto falso».
Quanto è
diffusa questa voglia di riabilitazione in nome di una finta antimafia?
«Atti giudiziari e dichiarazioni di pentiti ci raccontano di una
mafia che prova a nascondersi e a rifarsi un’immagine attraverso la denuncia di
un’estorsione, ovvero cercando di avvicinarsi all’associazionismo antiracket. Le
interdittive che ho emesso sono servite a capire anche questo, alcune ditte
ostentavano ostilità verso le cosche, in realtà erano ancora vicine ad ambienti
di mafia. È emerso pure un fenomeno nuovo: la costituzione di attività clone di
quelle confiscate, nella disponibilità di stretti congiunti o amici, per
aggirare l’offensiva dello Stato e l’applicazione della legge Rognoni La
Torre».
Negli
ultimi due anni, ha emesso 157 interdittive antimafia nei confronti di 100
ditte. Che mafia ha visto dal suo osservatorio?
«Le interdittive dei prefetti sono uno straordinario strumento di
prevenzione, per scoprire con tempestività i nascondimenti della mafia
nell’economia legale. Uno strumento che interpreta a pieno quanto detto
dall’articolo 41 della Costituzione: l’attività economica non può svolgersi in
modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. I
provvedimenti emessi confermano quanto emerge dalle indagini della
magistratura: la sconfitta dello stragismo terroristico mafioso corleonese non
ha significato la sconfitta di Cosa nostra. Un dato su tutti, che abbiamo letto
nell’ultimo fermo disposto dalla procura di Palermo: come ai tempi del prefetto
Dalla Chiesa, Cosa nostra palermitana e quella catanese sono alleate, gli
uomini della nuova Cupola organizzano incontri nella città etnea, non certo per
amene gite fuori porta».
Su che
direttrici dovrebbe proseguire la lotta a Cosa nostra e ai suoi complici?
«La mafia sarà sconfitta, lo ha ribadito il ministro dell’Interno.
Per questo non possiamo arretrare nell’azione giudiziaria e nella prevenzione,
il sistema delle norme antimafia va difeso e sostenuto. È la nuova rinnovata
sfida che deve muovere da Palermo. Un compito arduo, ma avvincente. Per la
storia della città, per le ferite inferte nella sua carne viva dalle troppe
morti innocenti che reclamano giustizia piena e verità. Una sfida,
innanzitutto, culturale. Palermo si è tolta ormai il marchio di città di mafia,
ma tuttavia non può ancora chiudere con il suo drammatico passato, non c’è
spazio per un’eutanasia del dolore, è ancora necessaria un’azione corale che
veda insieme Stato, istituzioni locali e società civile».
Come si
mettono insieme prevenzione antimafia e cultura?
«La prefettura è stata impegnata anche a sostenere il progetto
Palermo capitale della cultura, con esposizioni del proprio patrimonio
artistico, e a dialogare in modo costante con gli studenti e con la società
civile. L’immagine più bella che porto con me è quella dei ragazzini dello Zen
chiamati al tavolo del prefetto per raccontare, fiduciosi, il loro
progetto di quartiere».
Quali sono
stati quest’anno i momenti più complessi al tavolo di villa Whitaker?
«Il tavolo del prefetto è metafora di importanti sinergie che sono
volte a garantire la sicurezza di ogni giorno e poi in occasione di grandi
eventi, come la visita del Santo Padre e la conferenza internazionale sulla
Libia. Su altri fronti, non sono mancati momenti in cui è stato necessario
mantenere nervi saldi per decidere con lucidità e prontezza. Penso ai giorni
dell’alluvione e dei gravi incendi estivi».
Chi vuole
ricordare fra i palermitani del 2018?
«Durante l’alluvione, è morto un giovane medico, Giuseppe Liotta,
che viveva il suo lavoro con spirito missionario. La nostra coscienza si deve
interrogare. La morte dell’uomo buono è un monito, deve diventare una guida.
Ogni giorno bisogna impegnarsi per cercare il bene della comunità».
La Repubblica Palermo, 30 dic 2018
Nessun commento:
Posta un commento