AMELIA CRISANTINO
In “Centosessant’anni di storia” l’analisi di Salvatore Lupo che giudica
riduttivo parlare di strategia del basso profilo dopo le stragi L’omicidio di
padre Puglisi come ultimo atto dei gesti simbolici eclatanti.
Venticinque anni dopo l’uscita della sua Storia della mafia, Salvatore Lupo torna in libreria con un nuovo lavoro
di sintesi, La mafia. Centosessant’anni di storia (Donzelli, 412 pagine, 30 euro), che aggiorna la materia e allarga la
prospettiva sino a includere quella che viene definita «la sua figlia
legittima», la mafia americana. Il primo libro è stato un long
seller che ha tenuto banco per quasi un quarto di secolo, punto di
riferimento e confronto per una generazione di lettori che vi ha trovato il
rigore della ricerca storica, coniugato con la capacità di sintesi, per una
materia ancora sfuggente: toccava allo storico trovare le risposte a una serie
di domande essenziali, anche se la vecchia storiografia aveva descritto la
Sicilia come una società semi-feudale e per lo più immobile, che poco si
prestava a fare da sfondo al dinamismo economico esibito dai curricula di boss
e gregari. La mafia sembrava ubiqua ma di ardua definizione.
Sotto gli occhi di tutti nei suoi esiti, ma inafferrabile nella
sua indeterminatezza teorica. E ogni volta bisognava quasi giustificarsi,
cominciando col delimitare il campo d’indagine in cui ammettere quei fenomeni
tra loro omogenei che era possibile raccogliere sotto la voce “mafia”: proprio
l’imprecisione dei campi di applicazione ne aveva in qualche modo stabilito la
duratura fortuna. Il primo compito dello storico coincideva quindi con
un’operazione di pulizia del linguaggio, che puntando a restringere il campo
eliminasse le vaghezze stratificate per tornare al primo uso deltermine nella
Sicilia post-risorgimentale.
Adesso, venticinque anni dopo, Lupo ricomincia dalle origini. La maturità
ha portato nuove esitazioni, nell’introduzione al nuovo libro scrive: «Sono
consapevole che solo in parte la ricerca può illuminare gli spazi torbidi e
oscuri in cui si sviluppa questo fenomeno, la rete di intrighi che costituisce
la storia della mafia». Lo storico risponde ad urgenze civili oltre che
conoscitive, rifiuta di accreditare quelle che definisce «le mitologie del
Super-complotto» che alla fine, raffigurando la mafia alla stregua di un
invisibile e pressoché invincibile super-potere, finisce per delinearne «una
sottile apologia». Riflette che, nel corso della sua lunga storia, la mafia ha
sempre cercato di mantenersi coperta per divenire invisibile. Che nascondendosi
nelle pieghe della cattiva politica s’è mimetizzata.
Nell’era corleonese ha platealmente esibito la propria capacità offensiva:
una drammatica escalation, che ha avuto l’effetto di compattare
ilfronte antimafia e disgregare quello mafioso coi tanti pentiti che hanno
seguito l’esempio di Buscetta.
Una stagione di grande emergenza per fortuna conclusa.
E Lupo segna una data, il 15 settembre 1993: il giorno in cui don Pino
Puglisi, parroco a Brancaccio, viene ucciso per essersi pubblicamente
schierato.
Dopo quell’omicidio la mafia non ha più ucciso seguendo logiche simboliche e
«in senso lato politiche», e neanche fra loro i mafiosi si sono più ammazzati
come prima: ci sono stati anni in cui a Palermo sono del tutto mancati gli
omicidi riconducibili alla criminalità organizzata e forse mai, a partire
dall’Unità d’Italia, s’era registrato un simile dato.
Lupo mette in fila i fatti. Cita i dati forniti dal magistrato Gioacchino
Natoli: dal 1993 al 2006 nel solo distretto di Palermo si sono avute oltre 450
condanne all’ergastolo per fatti di mafia, contro appena una decina di condanne
irrogate nei cento anni precedenti il maxiprocesso. Al di là delle stragi, Lupo
ricorda quanto siano stati drammatici anni come il 1991 in cui si contarono 700
omicidi riconducibili alla criminalità organizzata: per comprendere la gravità
della cifra bisogna collegarla ai 490 morti complessivi registrati per cause di
violenza politica durante gli anni di piombo. L’autore ricorda la cattura dei
tanti latitanti, e anche come all’ombra del vessillo antimafia siano cresciuti
personaggi anodini e carriere lontane dalle dichiarazioni ufficiali. Lo storico
registra come facilmente si torni indietro, come i vecchi stereotipi tornino
sempre a galla: parlando alla folla di Palermo, nel 2014 Beppe Grillo diceva
«la mafia è stata corrotta dalla finanza... prima aveva la sua morale»,
fornendo ai suoi sostenitori una contrapposizione vecchia-nuova mafia
apologetica e depistante.
Salvatore Lupo è uno storico dell’età contemporanea: è lontano dalla
rarefazione dei documenti d’archivio, è circondato dalla mole di materiali che
sono oggetto del suo studio e questo libro trabocca di riferimenti incrociati
che ben riflettono la complessità del tema.
Nelle conclusioni ritorna alla tesi di Giovanni Falcone che sta alla base
del maxiprocesso: la mafia non è manovrata o manovrabile da un “terzo livello”,
posto nell’empireo della grande politica o della grande impresa. La mafia
agisce in proprio. E alla fine, ha vinto o ha perso? Per Lupo, chi non riesce
ad ammettere che la mafia possa essere stata sconfitta riduce la crisi epocale
di Cosa nostra a un volontario inabissamento pianificato da Provenzano: il
gruppo al comando di Cosa nostra ha perso nello scontro con lo Stato. Certo,
questo non vuol dire che la mafia sia finita. Si è adattata alla situazione,
“calati juncu ca passa la china” recita un vecchio proverbio sempre ricordato
per descrivere i momenti di “assenza” mafiosa. Ma una nuova mafia, nuovi
personaggi e altri rapporti di forza non cancellano il numero degli ergastoli
comminati, coincidenti col fatto che il gruppo di comando di Cosa nostra sia
stato decapitato. Tutto il resto domani diventerà storia.
La Repubblica Palermo, 12.12.2018
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