L'avv. Armando Sorrentino |
di Armando Sorrentino
"I miei figli hanno sempre vissuto con il padre sotto
scorta"
Con questa riflessione sulla propria condizione umana, il magistrato Nino Di Matteo apre, di fatto, un libro - verità - “Il Patto Sporco - Ed. Chiarelettere” - scritto con il giornalista Saverio Lodato, opera che ribalta consolidate e, al contempo, false o parziali rappresentazioni della realtà di questo Paese riguardanti vari aspetti della vita della polis.
E se l’apertura si connota di una certa amarezza, la chiusura di questo racconto-saggio, viceversa, la supera, facendo leva su un pensiero forte e un richiamo a certi valori fondamentali che hanno accompagnato il lavoro di uno dei protagonisti del processo Stato-mafia e che si racchiudono nelle ultime righe “anche nei momenti più difficili ... avevamo la serena determinazione di chi sapeva di stare compiendo il suo dovere di magistrato, in obbedienza al principio sancito dalla Costituzione dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge”.
Con questa riflessione sulla propria condizione umana, il magistrato Nino Di Matteo apre, di fatto, un libro - verità - “Il Patto Sporco - Ed. Chiarelettere” - scritto con il giornalista Saverio Lodato, opera che ribalta consolidate e, al contempo, false o parziali rappresentazioni della realtà di questo Paese riguardanti vari aspetti della vita della polis.
E se l’apertura si connota di una certa amarezza, la chiusura di questo racconto-saggio, viceversa, la supera, facendo leva su un pensiero forte e un richiamo a certi valori fondamentali che hanno accompagnato il lavoro di uno dei protagonisti del processo Stato-mafia e che si racchiudono nelle ultime righe “anche nei momenti più difficili ... avevamo la serena determinazione di chi sapeva di stare compiendo il suo dovere di magistrato, in obbedienza al principio sancito dalla Costituzione dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge”.
La sentenza della Corte di Assise di Palermo pronunciata il 20 aprile del 2018, con motivazioni di ben 5552 pagine depositate il 19 luglio ha riconosciuto valido, pressochè per intero, l’impianto accusatorio dei P. M. di Palermo, tra questi il co-autore del libro che, rifacendosi ad una verità processualmente per la prima volta accertata in tema di rapporti tra Stato e mafia, costituisce, a mio avviso - per i suoi contenuti intrinseci, chiaramente rappresentati - una novità assoluta nel panorama delle letteratura statomafiologica o mafiostatologica.
Infatti, sinora nessuna delle sentenze sui grandi delitti di mafia e sulle stragi, aveva stabilito connessioni e/o connivenze tra cosa nostra e pezzi di Stato, solo alcune avevano timidamente adombrato che potesse esserci una possibilità di rapporti tra le due parti e la politica da troppo tempo tace.
Gli intellettuali, per conto loro, parlano d’altro, al più condannano la mafia ma non si pongono domande - e talvolta perfino le rifiutano - sul sistema di potere politico-mafioso e, così, assieme ai piccoli politici hanno propagato e trasmesso messaggi rassicuranti per garantire una tenuta di fiducia da parte dei cittadini e delle cittadine nelle istituzioni, perpetuando la grande favola di una mafia che viene sì combattuta dallo Stato, ma talmente forte e agguerrita da non potere essere sconfitta in tanti decenni, rassicurando, comunque, che prima o poi ci si riuscirà.
Gli eventi tragici che hanno segnato e, anche, cambiato il corso della nostra storia repubblicana, come Portella della Ginestra, Piazza Fontana, l’uccisione di Aldo Moro, i grandi delitti del quinquennio siciliano '79-'83, le stragi del '92-'93, solo per citare quelli che costituiscono indiscutibili passaggi di fase nella vita del Paese, sono stati, in larga maggioranza, liquidati come “misteri”e, quindi, come tali, esclusi dalle normali capacità cognitive della ragione.
Non si è mai voluto veramente scendere in profondità, scavare le ragioni nascoste di quei delitti e di quelle stragi, ed è stata edificata, appunto, una confortevole ideologia dei misteri, quando, piuttosto, sono tutti avvenimenti intrisi di segreti che (certa) politica ha deciso che restassero tali, che fossero usati come arma di pressione, di ricatto, di scambio, in una esaltazione della menzogna voluta e ricercata dalla parte prevalente della classe dirigente di questo paese in spregio a quel bisogno di verità che è il cemento sacro di uno stato democratico di diritto.
Segreti e menzogne che, accumulatisi e sedimentatisi progressivamente nel tempo hanno contribuito in modo significativo ad inquinare gravemente la società in tutte le sue articolazioni, favorendo il rafforzamento di un forte apparato di comando progressivamente autoriprodottosi.
L’Italia è sempre stata un paese che ha nascosto accuratamente la verità e, siccome la verità, diceva qualcuno, è rivoluzionaria, in Italia ci crediamo davvero e quindi cerchiamo di evitare la rivoluzione.
“Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili” diceva Pasolini il cui famoso ed eccezionale manifesto poetico-politico: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”oggi, forse per la prima volta in termini di sicuro rilievo, può ritenersi smentito perché, grazie a pochi uomini e donne di questa democrazia, possiamo dire disapere e di aver le prove, restando, tuttavia, ben consapevoli che molti altri, da sempre, “sanno e tacciono", occultando i segreti nei cassetti o in armadi della vergogna.
Allo stesso modo cade, almeno sicuramente per il momento, l’antica profezia di Sciascia che “lo Stato non processa se stesso”, in quanto la sentenza di Palermo dimostra che un’eventualità del genere può verificarsi e gli assetti democratici del Paese possono trarne obiettivo vantaggio, soprattutto se l’informazione facesse buon uso della tanta sbandierata libertà di stampa che, in occasione della nota sentenza, ha ritenuto di essere talmente libera da non parlarne quasi del tutto.
Ecco che il libro dei due intellettuali - nel senso sopra descritto, di cercatori di verità - rompe questo silenzio, scompagina molti assetti interpretativi del binomio mafia-stato, quelli consuetudinari per comodità o inerzia intellettiva e altri concepiti in perfetta mala fede, apre uno squarcio illuminante e di rara efficacia su svariati meccanismi che hanno regolato rapporti indicibili tra pezzi dello Stato e la mafia, consentendo un recupero di criticità che concorre a formare un approccio realistico rispetto a condotte, avvenimenti, episodi e fatti che appartengono alla storia di questa nostra tormentata, imperfetta ma irrinunciabile democrazia.
“E’ ciò proprio di cui non si può parlare che bisogna scrivere” diceva una filosofa, alludendo al timore del Potere che si possa sapere, e Di Matteo e Lodato hanno scritto il libro con stile leggero e con contenuti forti, ragionati e convincenti, con passione e sobrietà, ove il travaglio di anni interi vissuti circondati e oggetto di attacchi istituzionali e di provenienza accademico-politico-culturale, viene elaborato con uno sguardo oltre, di serena superiorità nei confronti di interessi particolari e di appartenenza e dove, finalmente, si sgombera il campo dai tanti luoghi comuni che sostengono una editorialistica, una politica, una struttura di studi e conoscenze, sempre inclini alle direttive di chi tiene le redini di comando in tutte le attività che si sviluppano all’interno della società.
E così, fissando plasticamente che la memoria è tutto, il libro affronta il tema della trattativa, ricordando che questa ha avuto inizio con lo sbarco degli alleati nel 1943, che, anche per causa sua, vi fu la strage di Portella e, così, per il lungo elenco di episodi drammatici nei quali, quasi sempre, il ruolo di Cosa Nostra è stata di esecutrice per conto terzi, con indubbio proprio tornaconto che, mano a mano, almeno per le questioni di maggior rilievo, le ha assicurato impunità e prestigio, non soltanto presso gli adepti.
Molti sono gli argomenti e gli spunti di grande interesse nel libro, si può richiamarne solo alcuni che, a mio parere, lo caratterizzano come un’opera di rottura nella letteratura specifica di riferimento; si pensi solo alla dichiarata fine della grande favola, cioè la falsa rappresentazione di una mafia chiusa in una torre eburnea di gelosa separazione da qualsiasi altro potere palese o occulto, assolutamente autosufficiente, combattuta freneticamente da uno Stato puro ma non sufficientemente forte da poterla abbattere, alla scomparsa anche del grande imbroglio attuato per confondere le carte con l’addossare ogni responsabilità, quando non si vuole o non si può ricercare la verità, ai cosiddetti servizi segreti deviati, in tal modo smorzando ogni legittima pretesa di verità, essendo regola di comune esperienza che da quella parte è quasi impossibile che possa venire un contributo in quella direzione, ma anche in quanto bisogna considerare che essi non decidono liberamente, ma prendono ordini dal potere politico.
E svanisce la grande truffa ai danni delle intelligenze degli italiani costituita dalla mancata perquisizione dell’abitazione di Riina, fatto che, così come per la storia d’Italia la vicenda Moro segna uno spartiacque tra il prima e il dopo, configura una salto all’indietro nel contrasto dello Stato (sano, chè esiste) all’organizzazione cosa nostra, evidenziando una trattativa realizzatasi all’interno di un quadro più generale di storica intesa tra lo Stato (non sano e minoritario, ma più forte dell’altro) e la mafia.
E c’è la storia, per sintesi, di un processo definitosi con una sentenza che consegna al popolo italiano una verità terribile, cioè che a causa di trattative avviate da uomini dello Stato con soggetti politici gravitanti nel mondo mafioso, si registrò l’accelerazione nella decisione di eliminare Paolo Borsellinocon la scorta a distanza di pochi giorni dalla strage di Capaci, noncuranti, le menti raffinatissime che la vollero a tutti i costi, dei sicuri contraccolpi che avrebbe subito l’organizzazione.
Si doveva agire subito e ciò lascia supporre che Borsellino avesse o fosse sul punto di individuare movente e possibili autori dell’uccisione di Giovanni Falcone e il trafugamento della sua Agenda Rossa ad opera non di Cosa Nostra conferma che egli aveva visto giusto e che fosse vicino alla soluzione.
Il libro scorre una galleria ricchissima di personaggi mafiosi scomparsi o in vita, in ogni caso protagonisti nel processo, al pari di donne e uomini dello Stato, ivi compreso il Presidente della Repubblica Napolitano, la cui testimonianza, dallo stesso molto contestata, in definitiva ha apportato notizie utili ad inquadrare il contesto storico-politico del periodo '92-'94, ove ebbe inizio e si sviluppò una trattativa che, con sfumature diverse, ha interessato quattro governi, - Andreotti, Amato, Ciampi e Berlusconi - configurando il reato di “Violenza o minaccia a Corpo politico, amministrativo o giudiziario” dello Stato in base al quale sono state emesse le pronunce di condanna nei confronti di mafiosi di rilievo di cosa nostra, di uomini dello Stato e di politici.
La storica sentenza della Corte della Corte di Assise di Palermo, come giustamente si sostiene nel libro, rappresenta la piattaforma più robusta ed avanzata per proseguire sulla strada di una ricerca instancabile delle troppe verità nascoste e negate di questo Paese, per dare senso concreto alla democrazia, quella vera, fatta di partecipazione, lucidità e passione, le stesse qualità che si trovano in questo prezioso libro che va diffuso, spiegato, dibattuto, anche criticato da quanti e quante hanno a cuore le sorti della comunità e che non pensano affatto di “curarsi” - come sostiene qualche imputato eccellente del processo - in attesa di eventi in danno di presunti nemici, perché siamo sani ed integri.
AntimafiaDuemila, Pubblicato: 08 Dicembre 2018
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