Non è forse esagerato affermare che La cucina dei Monsù nel regno delle Due Sicilie, di Mario Liberto (prefazione di Carlo Ottaviano, Gruppo Editoriale Kalòs, Palermo 2018), è un libro di scienza e di poesia. Libro di scienza perché realizzato dopo una lunga ricerca, meticolosa e attenta al tasso di affidabilità delle fonti, ma anche all’impianto di una narrazione coinvolgente e funzionale al recupero delle radici di un futuro rispettoso della tradizione e di un accettabile equilibrio ambientale. Libro di poesia, non solo perché è scritto bene, e l’autore resta il poeta che molti anni fa esordì all’impegno letterario con una raccolta di componimenti poetici inneggianti alla vita e all’armonia del Creato, ma soprattutto perché La cucina dei Monsù trasuda di passione vera.
La passione di un agronomo ed ex funzionario dell’Assessorato regionale all’Agricoltura scrupoloso einnamorato della sua terra, al punto di sentire il bisogno di dedicare la maggior parte del proprio tempo libero ad unavolontaria ricerca finalizzata alla promozione di iniziative volte a valorizzare le risorse ambientali (materiali e immateriali)dell’Isola, con particolare riguardo al settore agro-alimentare.
Testimone privilegiato del lungo processo di formazione delle competenze del brillante studioso (ormai accreditato a livello regionale e nazionale come uno dei più motivati e lucidi esperti ed ambasciatori della cultura alimentare mediterranea), chi scrive può attestare senza tema di smentite che il Nostro aveva incominciato ad accarezzare l’idea di raccontare la cucina dei Monsù nelle Due Sicilie nello scorcio del passato millennio, ancor prima di dare alle stampe, assieme ad Ettore Costanzo, I Prodotti dell’Isola del Sole. Viaggio tra mito, storia, tradizione, leggenda e realtà delle produzioni agroalimentari di Sicilia, che poi fu pubblicato per i tipi delle Grafiche Campo di Alcamo, a spese della Sezione Operativa dell’Assessorato regionale Agricoltura n. 73 di Palma Montechiaro. Non caso, a proposito di un prodotto caseario siciliano d’eccellenza, tipico dei monti Erei e impastato con lo zafferano, il Piacentinu, alla pagina 122 dell’opera testé citata si poteva leggere a chiare lettere, già nell’aprile 2001: «La tradizione vuole che l’aggiunta di zafferano risalga all’epoca di Ruggero il Normanno il quale, credendo nelle virtù antidepressive della spezia, ordinò ai suoi casari di metterlo nel formaggio che doveva essere consumato dalla moglie».
Si obietterà che i casari del Gran Conte non potevano averenulla in comune, per ragioni storiche, con i Monsù, tranne il fatto che gli uni e gli altri avevano il compito di procurare felicitàgustativa e benessere fisico ai signori che li pagavano. Liberto, però, ha dimostrato che le competenze dei Monsù non sono nateall’improvviso come Minerva armata dalla testa di Giove, né tanto meno il campo d’azione di questi professionisti coincideva con i confini del più grande Stato dell’Italia preunitaria. Al contrario, nel regno delle Due Sicilie il fenomeno si sviluppò per effetto di «venti spiranti dal largo», direbbe Fernand Braudel, e dopo che se n’erano già celebrati i fasti nei Paesi più evoluti del Vecchio Continente. Ma è pur vero – e l’autore ci tiene a sottolinearlo – che nel Napoletano e poi in Sicilia la cucina dei Monsù ha dovuto tener conto più che altrove delle tradizioni alimentari locali e dei tributi che esse avevano ricevuto nel tempo dai vari dominatori. D’altronde alcuni nobili, che nei pranzi ufficiali si assoggettavano allo stile alimentare delicato dei francesi, per i pasti quotidianipretendevano dai Monsù pietanze dal sapore più deciso, preparateanche con ingredienti mediterranei, primo dei quali l’olio d’oliva.Ma, ad onore del vero, gli stessi cuochi, «sebbene evidente fosse la loro sottomissione al gusto dei signori per i quali lavoravano, avanzarono, proposero e alla fine imposero una linea che avrebbe finito con lo scardinare alcuni principi ritenuti basilari della cucina».
Una verità, questa, che si disvela a chiunque legga le quaranta ricette, napoletane e siciliane, allegate da Mario Liberto in appendice al saggio oggetto delle nostre attenzioni. Una più attenta lettura dell’opera e dei riscontri che si rinvengono in Sicilia e nei territori continentali dell’ex regno meridionale permette di acclarare che tracce della cucina dei Monsù o dei Monzù (come si dice a Napoli) si rinvengono anche nei pasti rituali festivi e nella gastronomia senza troppe pretese assurta nel tempo alla dignità di produzioni agro-alimentari tipiche e di qualità. Si tenga però presente ciò che scrive nel suo ottimo libro Quel che resta. L’Italia dei paesi tra abbandoni e ritorni l’antropologo calabrese Vito Teti: «I prodotti tipici di oggi, ieri erano atipici, scarsi, eccezionali. La gastronomia regionale nasce dalla fusione e commistione di mille prodotti locali, un tempo, peraltro, nemmeno disponibili. Le “sagre” e i banchetti nuziali di oggi raccontano, anche quando cercano un legame con il passato, non quello che mangiavano, ma quello che i contadini avrebbero voluto mangiare». La ricostruzione che ne fa nel suo libro Liberto ci aiuta a capire perché.
«Monsieur le Chef – spiega nell’incipit lo studioso – furono chiamati coloro che tra i secoli XVIII e XIX espletarono il ruolo di capocuoco nelle case aristocratiche della Francia e successivamente nel Regno delle Due Sicilie. Il termine francese, com’è nella consuetudine meridionale di semplificare ed armonizzare tutte le parole d’importazione con il proprio dialetto, fu in seguito trasformato e ridotto in Monzù, per restare più vicini al francese Monsieur le Chef […]. La loro origine va ricercata nelle grandi dinastie imperiali d’Oltralpe, in particolare quella francese che, dal XVII secolo alla fine del XVIII, acquisì un superbo prestigio culturale e artistico che la rese famosa in tutto il mondo. Uno stile che si evidenziò nell’architettura, nella moda, nella musica, nell’arte di abbellire i giardini, insomma nell’intera espressione artistica. Una superiorità culturale che si manifestò anche in ambito gastronomico, divenendo sinonimo di raffinatezza e ricchezza […]. Tra il 1715 e il 1750 in Francia, dopo oltre tre secoli, tramontava così una civiltà gastronomica e ne sorgeva un'altra di segno contrario. A una cucina incentrata sulla carne e votata – grazie alle interminabili frollature, alle cotture plurime, alle violente speziature e al dolce-salato – all’occultamento programmatico dei sapori naturali, si sostituiva una cucina che scopriva gli alimenti freschi, i vegetali, le erbe aromatiche, gli accostamenti oculati, la sapiente alchimie delle nuove salse, dei fondi, delle glasse, dei legamenti».
L’eco di questa inedita rivoluzione culinaria da Parigiraggiunse nel volger di poco tempo le più importanti capitali europee e non lasciò certo indifferenti le famiglie aristocratiche, seè vero che «mandarono i loro cuochi nella capitale francese ad apprendere i segreti dell’haute cuisine che nei secoli aveva saputo inglobare insieme i saperi e i sapori dell’Oriente e dell’Occidente». Certo è che già nella prima metà del Settecento in Sicilia qualche famiglia blasonata aveva fatto tesoro della rivoluzione alimentare francese. Scriveva infatti nel 1979 il nobiluomo Michele di Linguaglossa che tra «leggende vere» della sua famiglia si tramandava che don Francesco Bonanno, principe della Cattolica e Roccafiorita, «allorquando era consigliere aulico di Vittorio Amedeo di Savoia e di Carlo VI e prender doveva una importante decisione per consigliare il Sovrano, ordinasse al suo “monsù” (cuoco) un piatto di pasta fritta alla Siracusana», cioè polpette di «capelli d’angelo», fritte con la sugna e cosparse di miele, nero e caldo dei monti Iblei.
Ma ha ragione Mario Liberto: a parte i singoli casi, la moda dei Monsù, prima di sbarcare in Sicilia, si era affermata «all’ombra del Vesuvio». La stessa capitale partenopea divenne «luogo di confronto delle grandi cucine europee» dopo il 1768, quando Ferdinando di Borbone IV di Borbone (figlio di Carlo VI, re di Spagna) sposò Maria Carolina d’Austria. Nell’Isola il fenomeno cominciò ad avere dimensioni ragguardevoli all’epoca delle guerre napoleoniche, dopo che Ferdinando di Borbone si trasferì con la corte a Palermo. Da quel momento non ci fu una sola famiglia dell’alta aristocrazia terriera che poté esimersi dalricorrere, almeno quando organizzava dei conviti di una certa importanza, alla professionalità dei Monsù e di presentare agli ospiti, tra argenteria con le iniziali del casato e cristalli di pregio, «quelle raffinatezze che, nell’ordine giusto, e fra loro bene assortite, provavano quanto eccellente fosse la cultura del ricevere della padrona di casa». Non era, poi, raro che fra le famiglie aristocratiche si scambiassero, all’occorrenza, i cuochi francesi o le ricette.
È doveroso precisare a questo punto che quando l’alta cucina francese si diffuse in ogni angolo della Sicilia non era più quella dei tempi del re Sole. Sull’onda della rivoluzione francese i grandi cuochi, «che avevano fino a quel momento lavorato soltanto per le grandi dinastie d’Oltralpe si dispersero nell’emigrazione e la cucina francese, sinonimo di raffinatezza e opulenza iniziò inesorabilmente la discesa verso la sua progressiva democratizzazione, colonizzando l’aristocrazia straniera e ponendo i capisaldi per l’avvento della gastronomia borghese». La cruenta caduta della dinastia dei Borbone in Francia e l’irrompere nella scena europea delle armate napoleoniche furono segnati da una vistosa caduta di stile dell’alta cucina francese: «Napoleone era lontano dalla raffinatezza di corte e incline ad una cucina a una cucina costituita da carni grasse, zuppa di pane e fagioli, maccheroni, il tutto innaffiato da vino rosso, ampiamente diluito con acqua ghiacciata». Da buon statista, si rese però conto che il regime alimentare già in auge nella corte borbonica poteva giovargli assumendolo come «segno di potere e di prestigio». E non si lasciò sfuggire l’occasione di delegare la «questione culinaria» a cinque personalità del vecchio bel mondo celebri per la loro cucina.
Fatto sta che la moda del cuoco di famiglia a Napoli si rafforzò ai tempi del regno di Gioacchino Murat, e dilagò anche in Sicilia, grazie anche alla pletora di cuochi francesi sbarcati nell’Isola, dopo il crollo della monarchia borbonica in Francia. Eppure, Ferdinando di Borbone, il re Lazzarone, che a Napoli aveva messo più volte a disagio la regina per le sue maniere poco regali, nell’Isola non fece mai sfoggio di maggior ricercatezza. A tale proposito Liberto ricorda che durante una battuta di cacciaSua Maestà si ritrova vicino ad un ovile nel momento in cui tre pastori stanno facendo la ricotta e, poiché ha fame, «prende una pagnotta offerta dai tre poveruomini, la taglia, ne toglie la mollica e con la crosta restante ne ricava una specie di scodella dove versa la ricotta ancora calda». E mangia con le mani, costringendo così i cavalieri e i gentiluomini della scorta a fare altrettanto. Da Gaetano Passarello sappiamo, inoltre, che tutte le volte che questo Sovrano andava a Noto per ragioni sentimentali, si faceva precedere da una lettera autografa con la quale chiedeva al suo gentiluomo di corte, marchese di Sant’Alfano, di fargli trovare i soliti fagioli (che mangiava a pranzo e a cena). E questi entrava in crisi, temendo di non poter soddisfare «la golosità augustissima di Ferdinando». La sua preoccupazione era, peraltro, più che giustificata, tenuto conto che i soli fagioli di cui era ghiotto l’augusto Nostro erano «bottoni di pollo, per cui ogni volta bisognava ammazzare o castrare tutti i polli incettati nei feudi di Alfano, Falconara, Castelluccio, Bauly, eccetera», per servirgli i granelli fritti con prezzemolo e cipolletta, sfumati con «mezzo bicchiere di vino vecchio di almeno trent’anni».
Ma Ferdinando restava pur sempre il re e, con tutte le sue bizzarrie ammiccanti ai modi plebei, la sua presenza e, ancor di più quella della regina, dei gentiluomini e delle dame di corte,finivano inevitabilmente con lo stimolare nell’aristocrazia gare di fasto e di mondanità, eleganza nel vestire e nell’ospitare, banchettisfarzosi, in cui la facevano da padrone i piatti dei Monsù, rivisitati e adattati alle esigenze dei padroni di casa e degli ospiti, compresi i forestieri di rango elevato, che venivano spesso invitati a pranzo da famiglie nobili e abati di estrazione nobiliare, che nei ricevimenti ufficiali facevano fiera mostra di gentilezze e buone maniere, apprese e coltivate nei casati d’origine. Di tutto ciò c’èriscontro, sia pure a spezzoni e in modo piuttosto frammentario –come fa notare Liberto –, oltre che nei testi letterari di vari rampolli di famiglie aristocratiche siciliane e partenopee, anchenegli archivi gentilizi e nei diari dei viaggiatori stranieri.
Se i primi Monsù approdarono nel regno delle Due Sicilie direttamente dalla Francia, col passare degli anni il campionario si arricchì di altri cuochi formatosi alla loro scuola che, come i loro maestri, divennero di fatto governanti e pubblicitari dell’immagine del casato, disposti a farsi carico di svariati problemi, dalla scelta e approvvigionamento dei prodotti necessari alla preparazione delle pietanze, al vaglio delle ricette adatte di volta in volta alla circostanza, alla selezione degli aiutanti di cucina, agli stessi arredi della camera da pranzo. Sul modello del sapere gastronomico aristocratico in Sicilia se ne creò uno nuovo, grazie all’intraprendenza di alcuni collaboratori dei Monsù, che si impadronirono dei segreti del mestiere per adattarli in contestisociali più bassi e comunque meno pretenziosi. Cosi, «l’agrodolce della caponata, elemento conservante di pesce e carne, diventò ideale per ospitare i tocchetti di melenzane e carciofi, cibi poveri»,che a poco a poco arrivarono sulle tavole del popolino, tramite le lavoratrici domestiche dei borghesi
Dopo l’unità d’Italia, a causa della confisca dei beni ecclesiastici e della chiusura dei monasteri, non poche suoreesperte di cucina e di arte dolciaria furono costrette a mettersi alle dipendenze di famiglie agiate in qualità di Monache di casa, con compiti analoghi a quelli dei cuochi. «Furono queste monache – assicura Liberto – a portare fuori delle grate dei conventi la raffinatissima e celestiale “pasticceria di Dio”. Prelibatezze rese famose da Giovanni Meli nella sua poesia Li cosi ruci di la batia, dove il poeta palermitano mette in risalto i frutti di marturana e i feddi di cancilleri del convento della Martorana, i minni di Virginie i bocconetti delle suore di Santa Caterina di Palermo e così via. All’ombra dell’Etna famose erano le crispelle dolci dei Benedettini di Catania; a Messina la pignolata dell’Ordine della Carità; nei pressi dei templi di Agrigento il cuscus di pistacchiodel Sacro Cuore di Gesù; a Sciacca i viscotta di la zza monica, i cucchiteddi, i fusiddi di li monaci e tante altre prelibatezze approdate oramai in tutte le pasticcerie siciliane». Le Monache di casa delle leve successive furono reclutate fra le zitelle (soventedella stessa famiglia del datore di lavoro), che consumavano la loro esistenza tra la cucina, il forno e il confessionale.
Ad ogni buon conto, l’irrompere nella scena gastronomica delle pie donne dalle abitudini monastiche non impedì che iMonsù continuassero a rendere in qualche modo più appetibile l’alimentazione dei ceti abbienti fino ad oltre la metà del secolo scorso, quando la legge di riforma agraria e le svendite dei patrimoni immobiliari atavici posero fine alla millenaria vicenda del latifondo e alle rendite fondiarie sperperate negli agi, nel gioco d’azzardo e in altri stravizi tipici della città. Tralasciando la gustosa sequela di citazioni ed aneddoti attribuiti a celebri cuochi di alta cucina borbonica, raccontati da Liberto, è doveroso precisare che c’erano tre tipi di Monsù: a stipendio fisso, incaricati di tutti gli aspetti inerenti la cucina; a forfait, retribuiti in base al numero dei coperti e la qualità delle portate; a partito, «autorizzati anche a preparare pietanze per conto terzi, utilizzando le cucine presso le quali erano stati ingaggiati da qualche nobile dell’epoca».
Il melanconico tramonto dei Monsù a servizio degli ultimi gattopardi di quello che era stato il regno delle Due Sicilia è scandito dall’avanzare di una cucina cosmopolita, cui tuttora ci si può accostare «nei grandi alberghi di lusso e a bordo dei transatlantici, dove grandi brigate di cucina, seguendo gli stessi canoni di un tempo, sono in grado di offrire maestosi buffet con preparazioni complesse e raffinate dell’intramontabile cucina internazionale»: parola dello chef palermitano Salvatore Sorrentino e di Mario Liberto che ne riporta fedelmente il pensiero. Sulla cultura gastronomica di Sorrentino, basti ricordare che l’uomo è cresciuto alla scuola di diversi Monsù siciliani e si è perfezionato a contatto con personalità della ristorazione di lusso del Nord Italia, tra i quali il fiorentino Trabucchi e il piemontese Bussone, «capostipiti di quelle brigate che hanno spalancato le porte della gastronomia internazionale negli hotel di Villa Igea e delle Palme di Palermo». Tutto questo chi scrive lo ha appreso dall’opera di Mario Liberto. Opera che merita di esser letta dachiunque sappia apprezzare la buona cucina meridionale e le valenze culturali di cui essa è portatrice. Grazie, Mario. Ad maiora!
Giuseppe Oddo,
Palermo, Natale 2018
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