ENRICO DEL MERCATO
C’è un filo che lega Victoria De Grazia, storica, docente alla Columbia
university di New York, alla Sicilia: le origini della sua famiglia e un pezzo
della vita di suo padre che in Sicilia ci tornò nel luglio del 1943, con la
divisa di soldato americano per partecipare allo sbarco che cambiò le sorti
della seconda guerra mondiale. Adesso, in Sicilia, ci è tornata lei, invitata
dall’ufficio culturale del consolato Usa di Napoli, proprio per parlare della
“Operazione Husky”. Ieri è stata a Catania, oggi sarà all’università di Palermo
al collegio San Rocco alle 12.
Professoressa De Grazia, settantacinque
anni dopo lo sbarco alleato sulle coste siciliane bisogna chiedersi se
l’operazione Husy può essere considerata l’evento determinante delle sorti del
conflitto. Lei che ne pensa?
«Beh, certo non è l’assedio di Stalingrado, perché si tratta di
un’operazione a lungo pianificata, che in pratica non prevedeva rischi di
fallimento. Però, di sicuro, lo sbarco in Sicilia segna l’inizio della disfatta
del progetto imperiale dell’Asse. E porta alla caduta di Mussolini. Ecco, in
questo senso, insieme allo sbarco in Normandia e alla battaglia di Stalingrado
lo si può inserire tra gli eventi determinanti della seconda guerra mondiale».
Lei parla di rischi di fallimento al minimo
per la preparazione dello sbarco in Sicilia. Perché?
«Perché fu preparato per lungo tempo. I sovietici pensavano e speravano che
l’apertura del fronte Sud in Europa avvenisse molto prima. Già nel 1942.
Invece, si provvide ad ammassare materiali e truppe e si aspettò la vittoria
definitiva in Nord Africa. Un tempo sufficiente a potere escludere possibilità
di fallimento».
Lei sa che parecchia pubblicistica
inserisce tra i motivi del successo dello sbarco in Sicilia, l’appoggio che la
mafia avrebbe dato alle truppe angloamericane. Lei cosa ne pensa?
«Io penso che chi sostiene questo non sappia tanto sulla mafia e
soprattutto non sappia bene come si organizza una offensiva militare. Cosa
poteva aggiungere la mafia a quella forza militare che era stata dispiegata?
C’erano forse centomila mafiosi sul terreno? Avrebbe potuto agire per
indebolire la resistenza dei tedeschi e delle truppe italiane? Ma questo
indebolimento non ci fu. Lo sbarco fu una battaglia dura e con una grande
resistenza da parte dei tedeschi. Che dopo lo sbarco ci sia
stata intelligence delle forze armate Usa con la mafia, su quello non
c’è dubbio. Ma solo nelle località dove la mafia c’era e comandava».
Dunque, lei sostiene che la collaborazione
tra esercito Usa e mafia ci fu, ma solo dopo la conquista della Sicilia. E a
cosa servì allora?
«Servì a dare nuove strutture di comando nei Comuni, a sostituire i
podestà. In quel caso ci fu intelligence con la mafia, ma non solo. Anche con i
massoni, con chiunque avesse contatti con italo-americani. I mafiosi avranno
dato informazioni, ma questo mi sembra normale in una invasione.
Piuttosto se proprio ci si deve indignare per i comportamenti dei militari
statunitensi, lo si può fare perché le città siciliane furono bombardate a
tappeto per i tre mesi precedenti lo sbarco. E lì morirono tantissimi civili».
Insomma, nonostante la pianificazione
lunga e meticolosa, lo sbarco non fu una passeggiata.
«Beh, ci sono voluti 31 giorni per conquistare la Sicilia. Chi aveva
pianificato non si aspettava questa resistenza che fu condotta soprattutto dai
soldati tedeschi. Ci fu un numero di morti molto alto e, soprattutto, i
tedeschi riuscirono a mettere in salvo parecchio materiale bellico».
Nell’immediato dopoguerra si affermò in
Sicilia il separatismo che, in alcune sue componenti, ipotizzò addirittura
l’adesione dell’isola all’unione degli stati americani.
«L’idea del separatismo si affermò in Sicilia, ma anche in Trentino o in
Val d’Aosta. Semmai in Sicilia ebbe connotazioni più “populiste” si direbbe
ora. Magari di populismo mafioso».
Lei ha dedicato alcuni libri allo studio
del regime fascista in Italia. Intravede un indebolimento della democrazia in
Italia, ma anche nel resto dell’Occidente?
«La complessa struttura del popolo italiano si è spesso prestata al governo
di uomini che sono partiti da una posizione per assumerne una opposta. E che
soprattutto sono durati molto a lungo: Crispi, Giolitti. Ma anche De Gasperi. E
poi Andreotti, Berlusconi. Mussolini ha una storia un po’ diversa. Che parte
dall’uso sapiente dei nuovi mezzi di comunicazione. Ecco, oggi si indebolisce
un tipo di democrazia. E ciò avviene ad opera di chi sa gestire bene i nuovi
mezzi di comunicazione che si affacciano. Però, i nuovi movimenti
dell’elettorato sono determinati soprattutto dalla mancanza di progetti e di
parole alternative da parte delle forze politiche tradizionali. Del resto negli
anni Venti Mussolini si affermò nel silenzio di un partito socialista che non
aveva più molto da dire».
La
Repubblica Palermo, 6 nov 2018
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