EMANUELE LAURIA
Un verdetto restrittivo della Cassazione, l’onda lunga
dello scandalo Saguto Cambia la strategia di attacco alla zona grigia. “Ora i
clan si fanno impresa”
E ora rieccoci tutti qui, a parlare della misteriosa zona grigia e di una
borghesia cresciuta e pasciuta non lontana dalla mafia. Non lontana sì, ma quanto vicina? Perché i casi Rappa e Niceta, nella loro
prossimità non solo cronologica, riaprono inevitabilmente il dibattito
sull’attività della sezione Misure di prevenzione del tribinale negli ultimi
anni ma obbligano a rileggere anche il ruolo stesso dell’imprenditoria
siciliana: non per assolverla da tutti i mali ma almeno per restituire dignità
a chi — dicono oggi i provvedimenti giudiziari — ha visto vacillare un impero
economico in presenza di accuse infondate.
Rischioso ma doveroso provare a districarsi, adesso, in una galleria
di operatori onesti, collusi, estorti, operatori coraggiosi che il racket
l’hanno sfidato davvero, operatori che invece hanno fatto la classica finta, e
qui la vicenda Montante pesa come un macigno.
Giusto riabilitare la borghesia dell’impresa e del commercio, certo, ma
giusto anche stare attenti a non salvare in modo acritico i non pochi che in
Sicilia hanno costruito la propria fortuna sul sostegno accordato dalla mafia.
Il punto di partenza, solido, è la sensazione che qualcosa sia cambiato,
nella valutazione delle misure di prevenzione patrimoniale da applicare nei
confronti di imprenditori che prima venivano condannati soprattutto da storie
familiari opache. Il filo che lega la vicenda dei Niceta a quella dei Rappa è
questo. Ed è scontato scorgere in questa nuova stagione gli effetti del
dopo-Saguto, perché i provvedimenti di dissequestro dei patrimoni delle due
famiglie palermitane cancellano provvedimenti contrari firmati dalla ex
presidente oggi sotto processo e radiata dalla magistratura. «Che il vento stia
girando, dopo la gestione Saguto, è un’impressione forte, ma è pur sempre una
prima impressione da approfondire», dice Umberto Santino, presidente del Centro
Impastato.
La prudenza, in questo campo, non è mai troppa. Giovanni Fiandaca, docente
di Diritto penale e studioso del fenomeno mafioso, allarga il quadro ma non
rifugge da un’analisi del fenomeno borghese. «Sulla questione delle misure di
prevenzione patrimoniale c’è un orientamento più garantista da parte della
Cassazione. Tutto nasce dalla sentenza De Tommaso, da una pronuncia della Corte
di giustizia europea — dice Fiandaca — che riguarda una misura di prevenzione
personale e mette all’indice l’indeterminatezza con cui si attribuisce la
pericolosità sociale a un individuo. Quella pronuncia può essere la classica
palla di neve che si trasforma in valanga e credo stia portando molti tribunali
a un orientamento più garantista anche sulle misure patrimoniali. Ora non so
quanto anche i giudici palermitani siano influenzati da questo orientamento:
bisognerebbe capirlo, prima di parlare degli effetti dello scandalo Saguto».
Questo maggior garantismo, nel proclamare la pericolosità sociale di un
indagato, porta Fiandaca a spostarsi sul contesto sociale. A proporre una
moratoria per la borghesia imprenditoriale palermitana: «Se vogliamo trovare un
mondo commerciale o imprenditoriale lindo e immacolato, a 360 gradi, beh, siamo
degli illusi. Ma accettiamo i chiaroscuri. E chiediamoci se forse la via della
salvezza e del recupero di chi è colluso o contiguo non sia preferibile a
quella della repressione mafiosizzante».
Ed è un po’ il tema che Enrico Colajanni, leader di “Libero futuro”, ha
rilanciato ammettendo nella sua associazione imprese borderline proprio per
fare opera di “redenzione”, finendo però per venire bloccato dalla prefettura.
È un argomento che si impone, anche davanti al moltiplicarsi dei casi di
imprese che hanno subito prima il sequestro e poi il dissequestro dei beni:
oltre ai casi già citati, si potrebbe aggiungere per restare ai tempi recenti
quello di Sergio Troia, titolare di un’azienda che lavora su tram e passante
ferroviario, che a inizio ottobre si è visto restituire dalla sezione Misure di
prevenzione otto milioni di euro.
Ettore Artioli, ex vicepresidente di Confindustria, oggi si erge «a tutela
della storia di famiglie imprenditoriali importanti, che forse pagavano il
pizzo ma che certo non devono il successo a Cosa nostra: non crederò mai che i
Niceta, come i Torregrossa o i Gulì, gente che lavorava dalle sette della
mattina fino a sera, hanno fatto fortuna grazie alla mafia». Forse è presto per
un revisionismo storico ma persino Ugo Forello, cofondatore di un’associazione
come Addiopizzo che si è rivolta soprattutto alle giovani generazioni di
imprenditori, oggi si dice pronto a riaprire una riflessione: «Io credo che
dopo il caso Saguto si sia passati da un eccesso all’altro, ma una sentenza di
dissequestro equivale almeno a una parziale riabilitazione anche di chi magari
non ha seguito i percorsi di legalità delle associazioni antiracket. Dopodiché
tocca alla politica abbreviare i tempi dei sequestri e tutelare i beni di chi
li subisce, affinché non si mandino in rovina enormi patrimoni».
Alla fine, l’importante è non dimenticarsi da dove si arriva.
Claudio Fava, presidente della commissione Antimafia dell’Ars, ha
conosciuto i Cavalieri di Catania prima degli imprenditori della finta rivolta
anti-pizzo: «I dissequestri di Niceta e Rappa, purtroppo, non sono segnali
certi di una rinascita dell’imprenditoria. Solo poche ore fa è stata data
l’interdittiva antimafia ai privati che gestiscono il servizio idrico ad
Agrigento e in commissione abbiamo assunto elementi chiari sulla vicinanza alla
mafia di imprese del mercato ortofrutticolo di Vittoria, nel silenzio di Comune
e prefettura.
Questo per dire che oggi forse non c’è l’imprenditoria che occhieggia alla
mafia, ma la mafia si fa direttamente impresa». La stagione dei dissequestri
dei patrimoni, nella prismatica storia siciliana, sta scrivendo un grande,
nuovo punto interrogativo.
La Repubblica Palermo, 21 nov 2018
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