La manifestazione del Pd a piazza del popolo a Roma |
Il Pd
sembrava morto e invece, forse, era solo svenuto. La riuscita manifestazione di
piazza del Popolo non risolve i tanti problemi ancora aperti ma ha almeno
centrato un obiettivo: dopo tante false ripartenze, tutte rimaste al livello di
velleitari annunci, stavolta qualcosa si è mosso. Nulla di definitivo,
invertire la tendenza sarà dura, ma per la prima volta da molto tempo la comunità
politica che ancora riconosce nel Pd lo strumento fondamentale per dare al
Paese un governo progressista, equo e laburista ha ritrovato sensazioni
positive: l’idea che il declino non sia ineluttabile, che il piano inclinato
delle sconfitte possa smettere di volgere a precipizio e che, in definitiva, si
possa ancora sperare per il futuro di non vivere in un Paese senza una
sinistra.
Una comunità politica vive anche e soprattutto di questo. Il popolo
dem accorso a Roma confida che questo segnale sia stato colto davvero anche dai
dirigenti. Il grido che si è levato dalla piazza è molto nitido: i manifestanti
chiedono che la tregua tra i big del partito duri più dello spazio di un
pomeriggio. Tregua non significa disarmo delle idee. Quelle, anzi, mancano da troppo
a un confronto vero, serrato e profondo. Ancora si stenta a credere che il Pd
non abbia celebrato un congresso dopo la disfatta del 4 marzo. Ora una data per
le primarie c’è e quel che manca è una sfida di contenuti, anche aspra, ma in
un quadro di reciproco riconoscimento. Quando uno scontro interno si consuma
con la minaccia, ormai nemmeno velata, che chi perde disconosce la legittimità
della leadership altrui è impossibile che la contesa produca risultati
virtuosi. E attenzione ai facili slogan o agli anatemi da talk show: il
problema non è l’esistenza delle correnti in sé — mai esistito un grande
partito socialdemocratico o conservatore che ambisca al 30-40% dei voti e che
non abbia al suo interno un’articolazione di culture politiche — ma il fatto
che le correnti esistano ormai solo in funzione delle esigenze dei leader e
delle rispettive corti. Non producono più valori, aggregazione, orizzonte. Solo
veleni e faide nelle quali si usano contro l’avversario interno toni e metodi
che talvolta non si riservano nemmeno agli avversari veri. Dice Martina ai
manifestanti: abbiamo capito la lezione, dateci una mano. Giusto. Ma una mano a
chi vuole partecipare deve darla anche chi ha la responsabilità di guidare il
partito. Perché non va sottovalutata la difficoltà di coinvolgere concretamente
chi è andato in piazza nella ricostruzione della casa dem. Negli anni il Pd ha
ridotto al minimo gli spazi di partecipazione, sostituito la vitalità dei
circoli con l’estemporaneità dei gazebo, usato i social per scimmiottare la
comunicazione grillina anziché per costruire nuove forme di partecipazione
soprattutto giovanile. E poi c’è la dura realtà di un partito che in molte zone
del Paese, specie al sud, è in mano a notabilati che gestiscono il consenso
solo in funzione dei feudatari locali, comitati elettorali che si risvegliano
sotto elezione ed entrano in sonno subito dopo. A piazza del Popolo si è aperta
una finestra ed è entrata una boccata di aria fresca. Trovare il modo di
lasciarla aperta è la vera sfida cui è atteso il prossimo leader del Pd,
chiunque egli sia.
La Repubblica, 1 ottobre 2018
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