Claudio Fava |
DOMENICO VALTER RIZZO
Giornalista e scrittore
La mafia siciliana, forse sarebbe più corretto dire il sistema mafia, ha deciso di riprendersi la parola, dopo un certo periodo di relativo silenzio. Quando parla Cosa nostra lo fa in due modi: o spara, oppure manda dei segnali chiari, inequivocabili. Due giorni fa ha deciso di mandarne due di segnali forti e chiari utilizzando, fortunatamente, il secondo strumento, sotto forma di un proiettile calibro 7,65 inviato via posta a Claudio Fava e, a stretto giro, con minacce inequivocabili rivolte a Maurizio Artale, il presidente del centro “Padrenostro” fondato da Don Puglisi.
Giornalista e scrittore
La mafia siciliana, forse sarebbe più corretto dire il sistema mafia, ha deciso di riprendersi la parola, dopo un certo periodo di relativo silenzio. Quando parla Cosa nostra lo fa in due modi: o spara, oppure manda dei segnali chiari, inequivocabili. Due giorni fa ha deciso di mandarne due di segnali forti e chiari utilizzando, fortunatamente, il secondo strumento, sotto forma di un proiettile calibro 7,65 inviato via posta a Claudio Fava e, a stretto giro, con minacce inequivocabili rivolte a Maurizio Artale, il presidente del centro “Padrenostro” fondato da Don Puglisi.
Ritrova la
parola Cosa nostra, perché sente, con l’intuito che ha sempre contraddistinto
la mafia siciliana, che il vento politico è cambiato e che
oggi più di ieri può permetterselo. Che le sponde politiche, per quelli come
loro, si sono ricostituite dopo lo sbandamento seguito alla caduta di
Berlusconi, quando tutto era diventato confuso e ci si doveva accontentare di
mezze tacche, come l’ineffabile Pippo Raffaele Nicotra, le cui
gesta abbiamo più volte narrato su questo blog, che oggi viene accompagnato finalmente nelle patrie galere.
A Cosa
nostra non bastano solo i Nicotra. Serve una copertura più elevata,
una copertura “di sistema”, un clima politico che garantisca gli affari in
tutta serenità. Di contro è tollerabile una politica muscolare,
rivolta al basso ceto criminale. Un po’ di arresti di spacciatori, la farsa dei
carabinieri col taser, un po’ di sberle agli immigrati senza documenti, le pacche
sulle spalle a chi spara ai ladri e magari li accoppa; insomma la politica
muscolare per le strade alla fine ai mafiosi sta pure bene, perché sposta il
bersaglio, sposta uomini, mezzi e risorse, soprattutto sposta attenzione.
Cosa nostra
parla dunque e si rivolge come sempre ai pochi che si mettono davvero di
traverso sulla sua strada. Claudio Fava ha sempre avuto parole chiare,
soprattutto ha compiuto fatti, e recentemente li ha compiuti da
presidente della Commissione regionale antimafia. Il primo fatto è stato quello
di fare diventare una Commissione pensata per far chiacchiere, qualcosa di
assai concreto. Lo ha fatto con l’inchiesta sul sistema Montante,
ovvero il sistema di potere della cosiddetta Confindustria della
legalitàdietro al quale si nascondeva un articolato meccanismo di potere,
che faceva impallidire quello cuffariano e lombardiano (compresi i legami con
l’alta mafia). Lo ha fatto puntando sui depistaggi su Via D’Amelio e facendo
passare una legge che impone agli eletti di rendere palese la loro
eventuale iscrizione alla massoneria, ed infine dicendo, al
contrario della quasi totalità dei commentatori, cose chiarissime sulla confisca di beni per mafia all’uomo più potente della
Sicilia, l’editore Mario Ciancio. Ha sostenuto – pensate
quale eresia – che i media confiscati dal Tribunale dovessero essere affidati a
persone diverse dai fedelissimi di Ciancio.
Ovviamente
si sono sprecati i messaggi di condanna delle intimidazioni.
Messaggi ai quali si è un unito con molta calma e con formale distacco
(inusuale per la sua comunicazione rutilante) anche il ministro
dell’interno Matteo Salvini. Ma in questi giorni il signor ministro
ha fatto ben altro. Ha postato, con un entusiastico commento, l’intervento di
un personaggio che attaccava il sindaco di Riace, Mimmo Lucano. Il personaggio che tanto è piaciuto al signor
ministro, è Pietro Zucco, condannato in Cassazione come prestanome
della ‘ndrangheta. Il ministro non lo sapeva? Possibile, può
capitare se fai il direttore delle Poste a Busto Arsizio, ma non dovrebbe
capitare se invece fai il ministro dell’Interno. Se un ministro è così inetto,
per cortesia lasci il suo posto, e soprattutto la sicurezza di questo Paese, a
qualcuno che sia capace di sapere le cose che attengono al suo Ministero. Ma se
invece il signor ministro lo sapeva, coma va letta quella scelta? Come
va letta, unita alle misere sette righe che il “contratto di governo” dedica
alla lotta alla criminalità organizzata? Come leggono queste scelte gli uomini
delle mafie?
Forse le
donne e gli uomini del M5S che con i loro voti parlamentari permettono a questo
signore di sedere al Viminale, dovrebbero farsi qualche domanda e
darsi qualche risposta, ma soprattutto qualche risposta dovrebbero darla ai
loro elettori, a quelli in buona fede, a quelli che li hanno votati pensando
che avrebbero cambiato l’Italia. Onestà è una gran bella parola, ma
è solo una parola. Urlarla in piazza e facile. Esercitarla con coerenza,
praticarla quando si sta al governo è ben altra cosa. Lì si misurano e si
pesano le persone e i partiti.
Il Fatto Quotidiano/Blog di Domenico Valter
Rizzo
10 ottobre 2018
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