Papa Francesco |
VINCENZO MARANNANO
Il Papa dirà ai mafiosi di convertirsi", promette l’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice. E - c’è da giurarci - molti se li ritroverà davanti, magari tra le prime file grazie a un diritto concesso da una città che ogni giorno consacra il loro potere nell’omertà e nell'indifferenza. E a quelli che non saranno lì, probabilmente basterà tendere un orecchio, considerato che il pulpito da cui arriverà la scomunica è a una cinquantina di metri, in linea d’aria, dalla dimora e dal feudo dei fratelli Abbate, tra i principali detentori del record di arresti e scarcerazioni per mafia, e che il palco è stato adagiato su un prato che per 364 giorni all’anno - escluse le visite pastorali - è circondato da bibitari e ristoratori abusivi, da prostitute e spacciatori, da senzacasa che occupano qualsiasi edificio riesca a fornire un riparo dalla miseria e dalle piogge torrenziali che allagano le strade come se fossero monsoni, da scippatori e stupratori che con la complicità del buio assaltano gruppetti di turisti convinti di essere arrivati nel nuovo eldorado della cultura italiana.
Insomma, ormai è veramente questione di ore. E finalmente Francesco potrà scandire le sue parole semplici e severe esattamente 25 anni dopo quell’urlo, purtroppo inascoltato, lanciato da Giovanni Paolo II nel pieno di una delle stagioni più infami e sanguinose della nostra storia recente. Per quanto vogliano farci credere il contrario, la Palermo che accoglierà il Papa per ricordare il sacrificio di don Pino Puglisi non è molto diversa da quella dei tempi più bui. Magari con un’immagine leggermente smacchiata, una decina di friggitorie in più in centro e con qualche folle che si ostina a buttare soldi e speranze organizzando mostre, eventi e biennali e restaurando palazzi e monumenti. Ma anche se potrà sempre contare su una piccola resistenza e una minoranza di eroi, questa striscia di mare e cemento resterà comunque una sposa infedele, una promessa non mantenuta, una città che si atteggia, agita i fianchi, ostenta quasi con boria un titolo, quello di capitale della cultura, immeritato come immeritati sono gli sfregi che i palermitani riservano alle loro bellezze.
Per un giorno potremmo fingere o provare a raccontare un’altra storia. Ma un quarto di secolo dopo - un'era geologica in un momento di cambiamenti epocali - la Palermo che sventolerà bandierine battendosi la mano sul petto, è riuscita solo a lavare le strade dal sangue ma non dalla contaminazione mafiosa che ammorba ancora oggi ogni angolo, insinuandosi in tutti settori dell’economia e della cosa pubblica e infettando piazze, palazzi e coscienze. È vero, non ci sono più stragi e delitti eccellenti che alimentano l’indignazione, fanno nascere movimenti spontanei e riempiono i balconi di lenzuoli bianchi. Abbiamo ormai metabolizzato il martirio di giudici, poliziotti, carabinieri, preti e semplici cittadini che si sono opposti a una mafia ancora presente e pressante, riducendo gli anniversari a momenti di raccolta familiari o a mere passerelle dei ministri o dei sottosegretari di turno. Ma tutto il resto è vivo, gode di ottima salute e sguazza nel degrado di una terra che ha sempre bisogno di favori, raccomandazioni, di un antistato che riempia i vuoti creati quotidianamente da istituzioni sorde, distratte o completamente assenti. Di una mafia con cui si può e (per qualcuno) si deve anche convivere. Una mafia che impone ancora il pizzo a tappeto, che frena lo sviluppo, che come un parassita succhia il sangue di una terra già ridotta all’osso.
È questa la Palermo che per un giorno si proclamerà chiesa di frontiera e patria dell’accoglienza. Una città figlia di una politica che quando non ruba e si fa corrompere riesce a malapena a vivacchiare o a litigare, accanendosi sui disperati anziché pensare al futuro dei propri figli. Una città che oltre ad affogare nel degrado, convive tranquillamente con uno dei più bassi tassi di scolarizzazione, con gli edifici che cadono a pezzi e con servizi da terzo mondo, con le strade che non reggono il peso dell’acqua e delle auto, con le discariche che hanno lasciato la loro collocazione naturale per spostarsi davanti alle chiese, alle scuole e ai monumenti. Una capitale finta, tirata a lucido per un giorno. E pronta a piombare nel suo consueto degrado dopo l’ultimo segno della croce e l’amen di congedo. Per buona pace di chi continua a raccontarci la favola della kasbah che non può essere più ordinata e più civile di così. Dimenticando che il disordine è l’habitat migliore in cui far crescere il degrado sociale.
(Dal profilo Facebook di V. Marannano)
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