La flotta anglo-americana |
SALVATORE LUPO
MANOELA PATTI
Il 10 luglio di 75 anni fa l’operazione Husky 1.400 navi, 150mila uomini:
cominciò la liberazione dell’Europa. La ricostruzione di quelle ore memorabili
All’alba del 10 luglio 1943 gli alleati sbarcano in Sicilia dando inizio
all’invasione dell’Europa. I britannici dell’VIII Armata di Montgomery si
riversano sulle spiagge della costa sud-orientale, mentre gli americani della
VII Armata di Patton puntano sul litorale sud-occidentale, fra Gela e Licata.
Le navi sono 1400, gli aerei e i mezzi da sbarco migliaia, gli uomini 150 000.
Chi vede approdare questa grande armata sulle coste della Sicilia ha
l’impressione visiva, spaventosa e affascinante, di una forza irresistibile.
Dopo Stalingrado, e prima della Normandia, lo sbarco segnò la svolta nella
guerra, e quindi nella storia mondiale, ma anche in quella italiana. Ebbe un
catastrofico effetto politico sul regime. Fu un anticipo della caduta di
Mussolini il 25 luglio, e in un certo senso anche dell’8 settembre. Ne
derivarono interminabili polemiche, nei decenni seguenti, sviluppatesi
soprattutto sul versante neo-fascista, sul tradimento della monarchia e
particolarmente della Marina.
Le polemiche si incentravano soprattutto sulla resa clamorosa della base
navale di Augusta, come già su quelle precedenti (giugno) di Pantelleria e
Lampedusa, e sul collasso delle difese costiere, e più in generale
dell’apparato militare che la propaganda del regime aveva descritto come
formidabile.
In realtà, però, tale non era.
Nella sua usuale logica dell’improvvisazione demagogica, il regime si era
affidato a reparti male armati, raccogliticci, costituiti da elementi locali,
che in quanto tali si sbandarono subito per l’assoluta impossibilità di far
fronte a una guerra di quel genere. Erano anche politicamente demotivati di
fronte alla crisi di consenso che si era determinata tra la popolazione di
fronte al prolungarsi della guerra, al mercato nero, al progressivo
peggioramento delle condizioni di vita sino alla fame; nonché alle tante
sconfitte subite e ai pesantissimi bombardamenti sulle città. Il collasso di
queste milizie territoriali scoraggiò anche qualcuno dei reparti efficienti
dell’esercito italiano, però altri resistettero per quanto possibile. La
divisione Livorno, dopo essersi coraggiosamente opposta alle truppe americane
nella Piana di Gela, fu massacrata dall’aviazione alleata, perdendo più di 7000
uomini su un organico di 11 000. Quanto ai tedeschi, nella Piana di Catania
opposero quel tanto di resistenza che consentì loro di sganciarsi ordinatamente
rientrando nella penisola. Era il massimo che potessero ottenere. Gli
anglo-americani completarono la presa dell’isola soltanto il 17 agosto. La loro
fu una vittoria non così facile, non così piena, non così veloce come da tanti
è stato detto.
Quella del tradimento è d’altronde solo una delle tante mitologie che
girano intorno alla Sicilia del ’43: la quale ha rappresentato e rappresenta
tutt’oggi un luogo di straordinaria portata simbolica.
Proprio per questo, nella sua logica semplificatrice, la memoria ha quasi
cancellato i britannici, cui pure nel fronte mediterraneo era assegnato dagli
accordi tra i due alleati il ruolo del senior partner. Ha collocato al centro
della scena, quasi soli, gli americani, sapendoli destinati a governare il mondo
nuovo, quali che fossero i sentimenti (grandi entusiasmi da un lato, ostinate
ripulse dall’altro) con cui ognuno ha guardato al loro potere.
Dall’inizio del ‘900, rapporto tra Sicilia e America ha significato
emigrazione. Citiamo il modo in cui Leonardo Sciascia rievocò il grande evento
dello sbarco in un racconto forse scritto nel dopoguerra, e che ritrovate oggi
nel volume Il fuoco nel mare.
«Verso la mezzanotte videro dalla parte di Licata il cielo farsi
luminoso. Gli americani stavano sbarcando, ne fummo tutti certi. E si
aveva il senso che quella luce lontana fosse come di una festa; che gli
americani – gli zii, i nipoti, i cugini d’America – facessero splendere la
volta nera in gloria di quei santi neri e barbuti per i quali sempre avevano
mandato, tra i foglietti delle lettere ai parenti o al parroco, il biglietto da
cinque o da dieci dollari».
Dimenticando la storia di sofferenza e violenza quotidiana che tante fonti
ci restituiscono, e qualche violenza gratuita commessa dalle truppe americane,
il mito vuole in effetti che cugini o zii d’America, per citare ancora
Sciascia, siano venuti a liberare l’isola, e poi anche l’Italia, dalla tirannia
fascista. Si tratta di un mito sì ma non certamente di una favola. Roosevelt
costruì la propaganda degli invasori- liberatori proprio sulla “relazione
speciale” fra italiani e italiani d’America. Dopo lo sbarco, decine di giornali
americani pubblicarono storie in cui la guerra in Sicilia, The Enemy Friendly
Isle (“ Time”, 26 luglio 1943) diveniva per tanti soldati l’occasione per
riabbracciare parenti lontani; magari per ritrovare le proprie radici.
L’altro mito, ciclicamente riproposto ( pensiamo al successo del recente
film “ In guerra per amore”), è quello del complotto mafioso siculo-americano.
Si tratta di una sorta di cascame, potremmo dire, del “ modello” degli zii
d’America. Dietro, c’è un fatto vero: il coinvolgimento del grande boss
della mafia statunitense, Charlie Lucky Luciano, nella gestione del porto di
New York in tempo di guerra. Ci furono altresì vaghi progetti di allargare il
raggio della collaborazione, che però non si concretizzarono mai. Nessun
documento attesta che Luciano o qualcun altro boss della mafia abbia avuto un
ruolo nella pianificazione dello sbarco e a maggior ragione nelle operazioni
militari. Qualcuno si è detto sicuro che nei mesi precedenti addirittura
Charles Poletti, futuro capo dell’AMGOT, il Governo militare alleato, si
aggirava per le strade di Palermo. Ma a quel tempo Poletti faceva tutt’altro. E
poi la documentazione sembra escludere che gli Alleati abbiano infiltrato
nell’isola agenti segreti prima dello sbarco; a maggior ragione di livello tale
da gestire il grande complotto di cui si favoleggia.
È vero invece che nella Sicilia centro- occidentale l’AMGOT intrecciò
rapporti di collaborazione con gruppi mafiosi, o qualche volta, viceversa,
provò qualche operazione repressiva. Sono questi i due poli, d’altronde, tra
cui ha oscillato qualsiasi altro governo nella storia dell’isola.
Salvatore Lupo ha scritto di quest’argomento nel libro Quando la mafia
trovò l’America. Storia di un intreccio continentale, (Einaudi). Manoela Patti
nel libro La Sicilia e gli Alleati. Tra occupazione e liberazione ( Donzelli).
La Repubblica Palermo, 10 luglio 2018
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