Donatella Marinello
Nel settembre del ‘69 la famiglia Alajmo si
trova a Parigi quando la falcata di uno sconosciuto invade per caso uno scatto fotografico che ritrae i due figli
della coppia davanti all’Opéra; le gambe
dell’uomo oscurano del tutto un fratello mentre l’altro, io narrante del romanzo , è solo appena nascosto dall’irruzione : Chissà se almeno quel signore ha fatto in tempo ad arrivare dove correva,
si chiede l’autore.
Anche il romanzo di Roberto Alajmo - L’estate del ‘78 , edito da Sellerio - stigmatizza una corsa, durata anni, di un
figlio verso la madre Elena, scomparsa tre mesi dopo un pomeriggio d’estate quando
si incontrano per l’ultima volta; l’autore, tutto preso dagli esami di
maturità, rimane stupito dalla
presenza della donna, la quale vive da
tempo da sola, dopo essersi separata dal marito. I due si scambiano un saluto
frettoloso e senza troppi fronzoli sentimentali- né carico di presagi sinistri o di
premonizioni - che si rivelerà essere un addio.
A quarant’anni da quell’incontro vede la luce
l’indagine compiuta dallo scrittore, dopo aver attraversato il guado del sorpasso
anagrafico con la madre, morta a 42 anni, per scoprire cosa abbia fatto la donna
durante i mesi successivi a quel breve e definitivo saluto di commiato.
La ricerca che impegna l’autore non è lineare,
non ci ritroviamo di fronte ad una concatenazione di accadimenti, ma è di tipo
circolare per conferire all’inchiesta la peculiarità di un viaggio interiore in
grado di riconciliare un figlio con
l’assenza forzata di una madre che ha scelto di chiudere con la vita senza
aggrapparsi agli affetti, alle logiche del dover essere (madre, moglie,
compagna, poi), rimanendo fedele a se stessa, al desiderio di afferrare quel
mondo rivelatosi un grumo vischioso di convenzioni, di obblighi e di frustrazioni che le sfugge di
mano, così come le aveva scritto Ignazio Buttitta in una dedica firmata su un
libro, rivelatasi suo malgrado un vaticinio:
A Elena,
Ca
vulissi afferrare ‘u munnu
E ‘u
munnu ci scappa ri manu.
L’esterno
irrompe nella vita della donna deturpando ogni visione feconda di opportunità e
di progettualità, sterilizzandola e senza nemmeno provare a capirla “ alle mie possibilità di essere amata non credo ormai più”, scrive Elena nella
lettera che consegna in una busta chiusa mesi prima dal decesso alla madre,
prima custode del suo ingresso nel mondo, con la clausola di darne lettura solo
dopo la propria morte, pianificando la
chiusura con una vita che reputa inadatta a comprendere e contenere le
inquietudini di una dimensione creaturale alla mercé di un abisso che tende a
risucchiarla con il canto del nulla di una sirena seducente: Non ho più niente da dire da dare da ricevere…perché non credo più in
niente.
La lunga corsa del figlio verso Elena è
scandita da una serie di riflessioni molto sorvegliate sul piano lirico, scevre
da un facile sentimentalismo, e tutte trascritte attraverso una prosa asciutta,
essenziale, che non invade il lettore con barocchismi o vezzi stilistici ma gli
dà spazio per meditare, per scegliere su cosa soffermarsi, per confrontarsi su
inquietudini universali. E così ci ritroviamo dentro una narrazione, che prima
di indirizzare la rotta che condurrà la memoria a destinazione, trova il tempo
per consentire all’io di guardare il proprio specchio interno e generazionale,
facendo mostra dei propri pensieri, del ruolo di figlio, padre, nipote.
L’autore affida il tutto al lettore e un
dolore privato, così pudicamente taciuto, viene elaborato tranciando la
solitudine e affidato all’ascolto di una comunione fraterna che diventa
condivisione sui non sense dell’esistenza , orrori compresi, così come i
naufraghi al largo di Lampedusa che nel
2013, prima di annegare, gridano il loro nome e il paese di provenienza nella
speranza che i sopravvissuti possano liberare i congiunti dal tormento del
dubbio sulla sorte dei loro cari dando testimonianza della loro esistenza di essere venuti al mondo. E’ un
mondo che tratta come individui spuri chi desidera volerlo acchiappare per
inventarsi una vita fedele alla volontà, oltre che di esserci, di essere, attraverso
un personale corredo di desideri, speranze, sogni;
è un mondo che agisce in nome del caos che risucchia le creature dentro la sua
stessa disumanità, le dimentica e le abbandona alla fragilità del loro destino.
Anche Elena, nelle sue ultime volontà, non
rispettate peraltro dai familiari, tra le altre cose chiede molti necrologi per
non sparire nel silenzio. Alajmo è riuscito non solo a dar memoria dell’esistenza
di una donna profondamente libera ma anche a far riflettere sulle speranze
deluse, sulla giovinezza e sulla vecchiaia, sulle paure, sulle vie
misteriose e incomprensibili che
conducono all’amore quando lo si riceve quando lo si ricambia, quando lo si
perde e quando non basta più nemmeno nella sua spinta vitalistica, e
sull’incomunicabilità che regna di frequente tra gli esseri umani cosicché a volte sembra proprio il dolore ad essere
deputato a costruire la fragile
e mutevole passerella in grado di avvicinare gli individui, riconoscendosi
simili nell’essere smarrite creature affidate alla voracità degli eventi.
Il
romanzo si conclude con un rito che conduce l’io al termine del suo viaggio interiore
a celebrare un inno alla corporalità beata della giovinezza, una partita di
calcio tra ragazzi che si configura come una metafora della vita e che si
trasforma in una festa dionisiaca scandita “di corsa e calci senza senso”, prima di addormentarsi per sempre.
In filigrana traspaiono come monito le due Leggi
Fondamentali della Felicità.
La Prima Legge: la felicità consiste
nell’essere felici.
La
Seconda Legge: e saperlo mentre succede, però.
Un invito dell’autore, in modalità sorriso fra le lacrime, a vivere il
presente con consapevolezza non dando nulla per scontato, cogliendo le gioie
che ci riserva anche nelle minutaglie e a farne tesoro nel qui e nell’ora prima
che esse diventino irrimediabilmente irrecuperabili.
“Bisognerebbe
provare a stilare una specie di Repertorio delle Gioie Irrecuperabili. Quel
genere di piaceri che non siamo in grado di cogliere sul momento, e di cui ci
rendiamo conto solo qualche tempo dopo, quando ormai sono impossibili da
conseguire o riprodurre. Esistono gioie che avevamo in pugno e abbiamo lasciato
andare, se non gettato via, come succede con i campioncini di profumo offerti
in distribuzione gratuita. Gettati via proprio perché offerti gratuitamente,
immaginando che siccome niente costano, niente valgono.
Roberto Alajmo, L’estate del ’78, Sellerio
Donatella Marinello
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