Mezzi militari americani nella base di Comiso negli anni '80 |
EMANUELE LAURIA
Ha vissuto i bombardamenti americani a Caltanissetta e comiziato davanti
agli alleati pronti a spedirlo in Africa per eversione. Dal Dopoguerra fino ai
missili a Comiso, Emanuele Macaiuso, 94 anni, già dirigente della Cgil e del
Pei, ex direttore dell’Unità e del Riformista, è stato testimone d’eccezione di
quel pezzo di storia della Sicilia indissolubilmente legata al governo a stelle
e strisce.
Macaluso, cosa le rimane dei giorni dello
sbarco a Gela?
«Ricordo il bombardamento aereo da parte degli alleati a Caltanissetta, il
giorno primo dell’approdo a Gela. Ero a casa di amici, scappai per cercare di
ripararmi, ma non c’erano ricoveri. Vidi tanti morti, per strada, quel giorno.
La cosa più orribile capitò al mio compagno Michele Calà».
Chi era?
«Un funzionario dello Stato che faceva il bibliotecario della mia cellula
clandestina: avevamo tanti volumi, ricordo ancora quelli di Jack London.
Michele fu gravemente ferito perché uscì per difendere i libri. Poi morì di
cancrena, l’ospedale era stato bombardato e non era agibile».
Che clima si respirava in quei giorni?
«Un clima strano, si passò in poche ore dalla paura alla festa. Era chiaro
a tutti, comunque, che finiva la guerra: arrivati gli americani a
Caltanissetta, furono aperti i magazzini dove c’erano le derrate alimentari
dell’esercito italiano, vi erano custodite grandi forme di formaggio, la gente
saccheggiò tutto».
Che giudizio dà, oggi, di quell’azione che
ha dato una svolta alla storia della guerra e dell’intero secolo scorso?
«Guardi, gli anglo-americani passarono senza grande resistenza e questo è
un fatto il cui ricordo mi colpisce ancora. L’esercito italiano si squagliò
subito, i fascisti gettarono le camicie nere nei cestini. Eppure Mussolini, per
totale sfiducia nei confronti dei gerarchi siculi, l’anno prima li aveva
sostituiti tutti con giovani provenienti da Nord. Non servì a nulla
quell’epurazione interna: in Sicilia si anticipò il 25 luglio».
Il dibattito sul ruolo che ebbe la
mafia nello sbarco è sempre aperto.
«Io non so dire se gli americani davvero tirarono fuori dalle carceri i
vecchi boss per favorire l’impresa. So che l’impresa si sarebbe fatta lo
stesso. Una cosa è certa: gli alleati, una volta, in Sicilia, per consolidare
il potere si affidarono a chi in quell’isola povera e allo sbando aveva un ruolo:
la Chiesa, i grandi latifondisti. E la mafia, appunto. Quegli stessi soggetti
che alimentavano il movimento separatista, fortissimo dopo la liberazione,
mentre Dc e Pci dovevano riorganizzarsi».
Quanto è stata forte, da quel momento in
poi, l’influenza degli States sulla vita politica (e non solo) della Sicilia?
«Bisogna sfatare alcune leggende. Indubbiamente gli americani videro male
il governo di unità nazionale. In Sicilia il referendum fu vinto da chi voleva
la monarchia e alcuni generali pensarono a un golpe, a fare dell’isola una
regione separata dal resto d’Italia e monarchica. Però non credo che questo
tentativo fu incoraggiato dal governo Usa. E in ogni caso Umberto II
saggiamente non accettò».
Anche sulla strage di Portella della
Ginestra aleggia l’ombra dei servizi segreti americani.
«Io non credo che la mano del bandito Giuliano fu armata dagli Usa. Venne
annata invece da un gruppo di agrari e uomini politici spregiudicati che gli
promisero che l’avrebbero aiutato ad espatriare. Ho polemizzato con alcuni
storici su questo punto: è chiaro che gli americani erano contro la
sinistra, il Pci, mal tolleravano quel movimento contadino che nel ’47 aveva
ribaltato i rapporti di forza politici conquistando il 30 per cento alle
elezioni regionali. Ma il giorno della strage di Portella c’era già un governo
unitario, in Italia, la Sicilia era ormai un pezzo del Paese, e agli Usa a
quel punto interessava dove andava l’intero Paese, non più la separazione
dell’isola».
Quante volte, nella sua carriera, il
sindacalista e dirigente comunista Macaluso si è trovato a manifestare contro
gli americani.
«Oh sì, dai giorni del Patto atlantico. Gli americani non andavano per il
sottile. Quando facevo il segretario della Camera del Lavoro di Caltanissetta,
mi convocarono e minacciarono di mandarmi in Africa come punizione per una manifestazione
che era ritenuta un atto eversivo. Mi salvarono due avvocati, Vassallo e
Pinelli, che intercedettero con il colonnello Smith, comandante delle truppe
inglesi. Non c’è dubbio che il rapporto con gli americani ha caratterizzato
parte della storia della Sicilia: un’influenza vera e propria, almeno quella
più forte, ci fu subito dopo la liberazione, con il sostegno delle istanze
separatiste.Fu in quel periodo che gli americani cominciarono a pensare alla
Sicilia come a una base militare: le polemiche, accese per primo da Girolamo Li
Causi, non si sono mai spente, investendo i Cruise a Comiso come l’insediamento
militare di Sigonella, fino al Muos. Ma
sarebbe errato limitare l’influenza del governo a stelle e strisce alle sole
vicende siciliane: dal secondo Dopoguerra in poi il rapporto con gli Usa,
dentro il Patto atlantico, ha caratterizzato l’intera storia d’Italia».
La Repubblica Palermo, 10 luglio 2018
Nessun commento:
Posta un commento