AMELIA CRISANTINO
Una biografia permeabile alle correzioni e il caso dell’archeologo inglese
che attribuì a una capra le ossa ritrovate e che fu sconfessato. Come avviene per tutte le cose, anche l’identità di Palermo si è modificata
nel corso del tempo.
Finita per sempre la mitica età normanno-sveva, per secoli la città ha
sognato di tornare a essere al centro di un regno. In nome della libertà, nel
corso dell’Ottocento s’è trasformata nella capitale delle rivolte contro il
Borbone. Si può dire che ha creato l’Italia assieme a Garibaldi ma è tornata
subito a ribellarsi. E rapidamente, in un tempo accelerato, è diventata la
città della Conca d’Oro e anche della devastazione urbana, della mafia e
dell’antimafia. E ogni volta, quando si cerca il legame le sue tante identità,
a venire a galla è il profilo di Rosalia: la fanciulla coronata di rose va
oltre il dilemma vero/falso in cui la vorrebbero costringere i perplessi e gli
increduli, trova la sua terra promessa in una città che s’identifica nel motto
“Viva Palermo e Santa Rosalia”.
Prima di affermarsi come mito condiviso della città, però, Rosalia ha
dovuto schivare pericoli d’ogni genere circa l’autenticazione della sua storia,
a partire dal ritrovamento dei suo resti, messi in dubbio da un luminare
inglese subito sconfessato dalla devozione collettiva. Le sue ossa sono
ritrovate sul Monte Pellegrino nel luglio del 1624, mentre a Palermo infuria la
peste: il cronista palermitano Vincenzo Auria adopera sempre l’iniziale
maiuscola, a significare la potenza distruttrice di un’epidemia che ha falciato
più di 30 mila morti in due anni e non lascia scampo. Nonostante i divieti del
Senato cittadino, la mattina del 15 luglio le reliquie dei santi Cristina,
Ninfa, Rocco, Sebastiano e Filippo Neri, beatificato solo nel 1622, vengono
portate in processione. Padre Pietro Garofalo avrebbe in
seguito raccontato che, all’improvviso, dal corteo si leva una preghiera a
Rosalia: lui stesso comincia a invocarla, la folla dei fedeli lo segue. È il
suo primo miracoloso manifestarsi, perché quel giorno sul Monte Pellegrino
erano state rinvenute delle ossa umane assieme ad altre forse «di liocorno o di
elephanti».
Le indagini subito avviate coincidono col moltiplicarsi dei miracoli, con
la scoperta di tracce del suo passaggio sulla terra e di prove del suo culto
antico, solo in apparenza dimenticato. L’emergenza accelera i tempi. La nuova
santa viene offerta alla città il 1° agosto, quando un suo quadro è portato in
processione assieme alle reliquie di santa Cristina. Poi per altri undici
terribili mesi l’epidemia impazza e le autorità invocano l’aiuto di tutti i
santi patroni, ma il popolo di Palermo associa la salvezza all’intervento di
Rosalia. E invano i vari ordini monastici lottano per vedere riconosciute le benemerenze
di candidati oggi del tutto misconosciuti in città, come il beato Andrea
d’Avellino.
Ma chi è Rosalia? Sostenuto dal suo potente Ordine, il gesuita Girolamo
Cascini lavora perché la nuova santa abbia uno status confacente al ruolo
di Palermo capitale.
Dapprima ascrive le sue origini alla liberatorum stirpe dei
normanni, poi la inserisce in una reale e imperiale progenie risalente
addirittura a Carlo Magno. La Controriforma vede con sospetto la santità
eremitica, e Rosalia viene inserita in un ordine monastico: di sicuro saranno
stati i suoi superiori a concederle di condurre una vita da eremita. Rosalia ha
quindi una biografia corretta ma permeabile, esposta alle tensioni degli
uomini. Così, a Palermo i litigi fra chi la vuole monaca benedettina o basiliana
e chi la preferisce eremita continuano per molti decenni: nel 1701 è
l’arcivescovo Ferdinando de Bazan e Manriquez a vietare ogni riferimento alla
vita monastica. Ma la nobile badessa Ippolita Lancellotto Castelli, che
guida le suore del monastero basiliano del Santissimo Salvatore, lo sfida: nel
1703 il pittore Giacinto Calandrucci invia da Roma un quadro con Rosalia in
abiti basiliani, e perché non resti alcun dubbio un polemico cartiglio
esplicativo ne sottolinea l’appartenenza all’Ordine. Iconografia eretica, che
per secoli rimane affissa nella cappella maggiore della chiesa annessa al
monastero.
Il radicamento del culto avviene senza badare alle sottigliezze create
dalle lotte fra gli uomini. Eremita o basiliana che fosse, Palermo celebra la fine
della pestilenza attribuendola alla sua intercessione e nel giugno del 1625
Rosalia è la protagonista di una sorta di festa della primavera che ben si
sposa con la sua immagine luminosa, giovane, coronata di rose.
Sembra che corra qualche pericolo solo nel 1826 quando il geologo inglese
William Buckland, a Palermo in viaggio di nozze, non ha dubbi: numerosi
religiosi lo accompagnano in un’escursione sul Pellegrino, lui esamina e poi
getta gli astanti nella costernazione dichiarando che si tratta di ossa di
capra. I palermitani fanno comunque quadrato, compatti nel sostenere che quelli
non sono i resti autentici di Rosalia. E Buckland, che insegnava a Oxford, è
subito declassato divenendo “un certo Buckland”.
Rosalia rimane viva, e “nessuno tocchi Rosalia” vengono chiamati a Palermo
i flashmob contro la violenza sulle donne. Chissà quale energia riuscirono a
cogliere nell’aria i primi tamil che si incamminarono per la vecchia strada che
porta al suo santuario sul Pellegrino. Non lo sapevano ma nella loro devozione
al monte, alla grotta e alla fanciulla coronata di rose ripetevano un rito
arcaico, sopravvissuto ai millenni.
Nel 1968 è l’archeologo Vittorio Giustolisi a trovare un indizio: proprio
all’ingresso della grotta, sotto gli occhi di tutti, ecco le tracce di
un’edicola rupestre di età punica dedicata a Tanit, la Fanciulla del Monte, la
divina compagna di Baal Hammon che protegge i vivi e veglia sui morti. Come
sempre fa Rosalia.
La Repubblica Palermo, 13 luglio 2018
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