«Con tutto
il rispetto possibile per il pastore di anime, anziché favorire l’arrivo in
Europa dei poveri di tutta l’Africa, il mio dovere al governo è pensare prima
ai milioni di poveri italiani. Sbaglio?». Con queste parole, il ministro
dell’Interno Matteo Salvini ha replicato su twitter al discorso rivolto alla
città dal vescovo di Palermo, don Corrado Lorefice, in occasione del “festino”
di s. Rosalia. Il messaggio
del ministro sostanzialmente riproduce lo slogan ripetuto innumerevoli volte in
questi mesi campagna elettorale e di governo: «Prima gli italiani». Ciò che è
nuovo è il contesto: la risposta al pronunciamento ufficiale di un vescovo
della Chiesa cattolica che, nell’esercizio del suo ministero, ha preso una
posizione fortemente critica nei confronti della politica del governo riguardo
ai migranti (come del resto, due giorni dopo, la presidenza ella Conferenza
Episcopale Italiana).
Non è una
novità di poco conto. Era preclusa a Salvini la via più semplice, che sarebbe
stata quella di rivendicare l’autonomia della politica dalla religione. Il suo
solenne giuramento di seguire il Vangelo, nel comizio conclusivo della sua
campagna elettorale, lo costringeva, infatti, a difendere la correttezza della
sua posizione proprio dal punto di vista cristiano. E, su questo piano, le
riserve di un pastore della Chiesa suonano sicuramente più preoccupanti, per il
titolare del Viminale, di quelle di un Saviano. Da qui il tono del twitter, più
rispettoso che tanti altri casi, con l’appello al proprio «dovere» e l’interrogativo
finale, che pone la questione in termini etici («Sbaglio?»).
Chi ha letto
il discorso di Lorefice, tuttavia, non può non notare che la risposta ne
semplifica molto il contenuto, fino a falsarlo radicalmente. Ciò che il vescovo
chiede ai palermitani (e, potenzialmente, a tutti gli italiani e gli europei)
non è affatto di «favorire l’arrivo in Europa dei poveri di tutta l’Africa» – è
ovvio che ridurlo a questo significa renderlo assurdo! –, ma di riflettere sul
modo migliore di custodire la propria identità e di fare i propri interessi.
«Un’illusione pericolosa si sta diffondendo: che la chiusura, lo stare serrati,
la contrapposizione all’altro siano una soluzione, siano la soluzione.
Ma una civiltà che si fondi sul “mors tua, vita mea”, una
civiltà in cui sia normale che qualcuno viva perché un altro muore, è una
civiltà che si avvia alla fine. È questo che vogliamo?».
Era questa
la domanda a cui Salvini doveva rispondere. Una domanda che investe
l’atteggiamento di fondo, lo spirito con cui la nostra società si deve porre di
fronte ai migranti. Perché, sulle modalità concrete di conciliare le loro
esigenze con quelle degli italiani e in genere degli europei, è giusto che sia
la politica a prendere le sue decisioni. Ma è l’orizzonte in cui esse si
collocano che può risultare molto diverso a seconda che si ispirino oppure no a
un valore non solo cristiano, ma anche semplicemente laico come la «fraternità»
(vi ricordate il motto della rivoluzione francese? «Liberté, égalité, fraternité»).
È questo
valore che evita al primo – la libertà – di diventare irresponsabilità, e al
secondo – l’uguaglianza – di misconoscere la ricchezza della diversità. I
fratelli possono avere personalità e storie molto differenti, come le hanno
africani e asiatici rispetto agli europei, ma – ha ricordato il vescovo
Lorefice – «la fraternità significa che siamo tutti figli, tutti sullo stesso
piano, responsabili gli uni degli altri, legati reciprocamente con un vincolo
inscindibile». Quali che siano le misure concrete da prendere, siamo noi oggi
nell’otica della fraternità?
Era questa
la domanda a cui Salvini doveva rispondere. E in fondo l’ha fatto. Perché, nel
suo linguaggio – che è quello oggi diffuso tra tutti i sovranisti non solo
dell’Europa, ma del mondo –, «prima gli italiani» significa che degli altri non
ci possiamo preoccupare. Il ministro l’ha detto chiaramente quando gli chiesero
che ne sarebbe stata dei 660 profughi imbarcati sull’Aquarius: «Sono affari
loro».
Diciamo la
verità: non è solo Salvini a pensarla così. È ormai sotto gli occhi di tutti
che cosa voglia dire, in bocca a Donald Trump, «Prima l’America». Oggi i
commentatori si trovano a prendere atto della disintegrazione traumatica, sotto
i colpi del presidente degli Stati Uniti, di quella comunità culturale,
politica ed economica che era l’Occidente. «Prima l’America» significa, in
realtà, «peggio per gli altri», specialmente se sono deboli.
E, sempre a
livello extra-europeo, proprio in questi giorni il parlamento israeliano ha
approvato una legge che dice che lo Stato d’Israele è «del popolo ebraico», non
– come era stato fino ad ora – di coloro che vivono in esso e che ne hanno la
cittadinanza. In questo modo tutti i cittadini arabi di questo Stato sono
diventati, automaticamente, di serie B; l’arabo non è più una delle due lingue
ufficiali del Paese; si apre un regime di apartheid e di discriminazione.
«Prima gli ebrei».
E se
passiamo all’Europa, i Paesi del gruppo di Visegrad – Repubblica Ceca,
Slovacchia, Polonia e Ungheria –, a cui fanno esplicitamente riferimento gli
altri Stati sovranisti – in qualche modo l’Inghilterra, dopo la Brexit,
l’Austria e, sia pure con delle oscillazioni, l’Italia – si basano sullo stesso
motto: «Prima i nostri cittadini». Per questo la loro linea non è affatto (come
qualcuno cerca di far credere) di consentire una equa distribuzione degli
immigrati in tutta Europa. Essi hanno esplicitamente rifiutato le quote loro
assegnate da Bruxelles (proprio questi giorni l’Ungheria di Orban, nella cui
linea il nostro ministro degli Interni si riconosce, è stata deferita alla
Corte di giustizia europea per aver violato sistematicamente le regole
sull’asilo dei profughi).
Per questo,
in Italia, l’obiettivo dello stesso Salvini non è – a differenza di quello del
premier Conte, che lavora con alterna fortuna e quasi di nascosto per tale
obiettivo – di ottenere finalmente una equa distribuzione dei profughi tra i
diversi Stati europei, ma di rimandarli in Libia, contraddicendo il parere
unanime dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati e dell’Unione Europea,
secondo cui in questo Paese non c’è alcuna garanzia del rispetto dei diritti
umani (e ci sono anzi delle provate violazioni di essi). Con la
“giustificazione”, dal punto di vista morale, che in questo modo non
annegheranno più nel Mediterraneo (perché – bisognerebbe aggiungere – moriranno
nei lager libici…).
Opporsi allo
slogan «prima noi» è “buonismo”? Le conseguenze della dissoluzione
dell’Occidente e della crisi dell’Unione Europea, anche sui Paesi che la stanno
provocando (si pensi all’Inghilterra), dovrebbero essere sufficienti a
dimostrare la verità delle parole del vescovo di Palermo: il vero interesse di
una comunità non sta nel ripiegarsi egoisticamente su stessa. Certo, la
distinzione tra chi ne fa parte e chi si trova all’esterno di essa è legittima;
ma non può significare l’esclusione e la discriminazione degli “altri” che il
triste slogan «prima noi» comporta.
In ogni
caso, poiché Salvini, per assicurarsi i voti dei cattolici, ha voluto giurare
sul Vangelo, che si prenda il disturbo, una buona volta, di leggerlo. O almeno
di lasciarsi istruire da chi, come il vescovo Lorefice, lo conosce: «È in nome
del Vangelo che ogni uomo e ogni donna hanno diritto alla vita e alla felicità,
perché “non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero in Cristo
Gesù” (Gal 3,28)». Non ci si trova scritto, infatti, che il samaritano, al
giudeo ferito dai briganti, abbia detto: «Mi dispiace, prima i samaritani».
Oppure: «Io sono samaritano; voi giudei dovete risolvere il problema a casa
vostra, sradicando il brigantaggio».
Nel capitolo
10 del Vangelo di Luca (vv.33-34) si dice: «Invece un Samaritano, che era in
viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino,
gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua
cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui». Come stanno
facendo tutti quei marittimi – militari e civili – che, contravvenendo agli
ordini severissimi del “capitano” Salvini, obbediscono ancora al comando cristiano
di salvare dalla morte chi sta annegando, non perché sia cittadino italiano, ma
perché è un uomo.
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