SALVO PALAZZOLO,
Era stato trovato nella 127 usata dai sicari del presidente della Regione
siciliana. Salta l’esame del Dna
Palermo - Un altro reperto scomparso, l’ennesimo, allunga la lista dei misteri di
Palermo. È un guanto di pelle dimenticato dai due killer — ancora senza nome —
che uccisero Piersanti Mattarella, il presidente della Regione che voleva
cambiare la Sicilia, il fratello dell’attuale Capo dello Stato. Trentotto anni fa, il guanto fu ritrovato dai poliziotti della Scientifica
nella Fiat 127 bianca abbandonata dai sicari. Oggi, quel reperto era candidato
a diventare uno degli elementi più importanti nell’ambito della nuova inchiesta
sul delitto Mattarella aperta dalla procura di Palermo diretta da
Francesco Lo Voi. I magistrati speravano di trovare tracce del Dna di uno degli
assassini all’interno del guanto. Ma il reperto non si trova. Non è più
all’ufficio corpi di reato del tribunale e neanche alla Scientifica, non è alla
squadra mobile. Il reperto è scomparso.
E, così, in queste ultime settimane, è scattata un’indagine nell’indagine.
Per provare a capire se quel guanto si è solo perso o magari, nel corso degli
anni, qualcuno ha alleggerito il fascicolo al palazzo di giustizia. In questa
inchiesta, è già il secondo reperto che scompare. Non si trovano più
neanche gli spezzoni di una targa ritrovati due anni dopo l’omicidio di Palermo
in un covo dell’estrema destra a Torino. Quegli spezzoni — “ Pa” e “ Pa 563091”
— hanno gli stessi numeri, ma composti diversamente, rimasti agli assassini di
Piersanti Mattarella, che avevano utilizzato due targhe rubate per camuffare la
Fiat 127 del delitto. Uno spunto importante. E, ora, il procuratore aggiunto
Salvatore De Luca e il sostituto Roberto Tartaglia seguono la pista dei killer
neofascisti mandati in Sicilia per commettere quell’omicidio eccellente. Anche
se una sentenza, ormai definitiva, ha assolto i “neri” Giusva Fioravanti e
Gilberto Cavallini e ha condannato come mandanti i boss della Cupola di Cosa
nostra.
Dice Piero Grasso, l’ex presidente del Senato che nel 1980 era il sostituto
procuratore che indagò sul delitto Mattarella: «All’epoca, quel guanto non era
emerso fra gli elementi di rilievo dell’inchiesta, non c’erano indagini
scientifiche con cui fare approfondimenti. Non c’erano neanche a fine anni
Ottanta, quando poi del caso si occupò Giovanni Falcone. Oggi, sarebbe stato
diverso» . Grasso ricorda il Dna estratto dopo vent’anni dai guanti in lattice
ritrovati dalla Scientifica accanto al cratere della strage di Capaci. «L’impegno per la ricerca della verità deve continuare nel nostro Paese», dice
Grasso.
Del sicario che sparò a Piersanti Mattarella sono rimasti un identikit e un
fotofit, realizzati grazie alle indicazioni della vedova del presidente della
Regione e poi anche di due scout dell’Agesci, che quel giorno inseguirono in
Vespa la 127 degli assassini. «Anni 22-24 circa, statura 1,65, capelli castano
chiari, bocca e naso regolari», così annotò la Scientifica. «Indossava giacca a
vento celeste, pantaloni attillati, scarpe beige». Irma Chiazzese Mattarella
offrì pure altri elementi che sono fondamentali ancora oggi: «L’assassino aveva
occhi di ghiaccio e l’andatura ballonzolante» . E sorrideva, mentre sparava.
Dell’altro complice, che guidava la 127, sappiamo ben poco. Solo che a un
certo punto dell’esecuzione fornì un’altra arma al sicario. E poi, con
freddezza, il commando si allontanò, lasciando l’auto a circa tre chilometri di
distanza. Sedici giorni dopo il delitto — questo dice un altro verbale — i
carabinieri del nucleo operativo convocarono il proprietario della Fiat 127, il
signor Isidoro F. di professione venditore ambulante, e gli mostrarono abiti e
oggetti che erano nell’auto. Lui riconobbe come suoi soltanto «due pantaloni,
di cui un jeans e uno verde, delle cambiali, un orologio di mio fratello, un
bottone nero e il libretto di circolazione». Quel guanto, fra i sedili
anteriori, era stato dimenticato dagli assassini di Piersanti Mattarella. Ma
non c’è più, come tanti altri dettagli che mancano dal primo rapporto della
squadra mobile alla procura. Tanti testimoni non furono neanche sentiti dal
vicequestore Bruno Contrada, che negli anni Novanta è stato poi condannato per
concorso esterno in associazione mafiosa. Di recente la sentenza è stata
dichiarata però “ineseguibile” dalla corte europea dei diritti dell’uomo.
La Repubblica, 20 giugno 2018
Nessun commento:
Posta un commento