MARCO LIGNANA
Si tratta di rimborsi elettorali, soldi dello Stato, spesi per gioielli e auto. Le condanne di Bossi e dei dirigenti. I tanti movimenti di denaro sospetti che coinvolgono il partito di Salvini
GENOVA - La caccia è 48 milioni e 970 mila euro. Soldi spariti, volatilizzati dalle casse della Lega Nord. Sottratti allo Stato, quindi alla collettività, ai cittadini italiani truffati dal partito oggi guidato da Matteo Salvini. Soldi scomparsi durante sei anni di indagini sull’uso spericolato di denaro pubblico da parte del Carroccio, con quattro procure della Repubblica coinvolte, due sentenze di condanna a Milano a Genova, centinaia di udienze.
Si tratta di rimborsi elettorali, soldi dello Stato, spesi per gioielli e auto. Le condanne di Bossi e dei dirigenti. I tanti movimenti di denaro sospetti che coinvolgono il partito di Salvini
GENOVA - La caccia è 48 milioni e 970 mila euro. Soldi spariti, volatilizzati dalle casse della Lega Nord. Sottratti allo Stato, quindi alla collettività, ai cittadini italiani truffati dal partito oggi guidato da Matteo Salvini. Soldi scomparsi durante sei anni di indagini sull’uso spericolato di denaro pubblico da parte del Carroccio, con quattro procure della Repubblica coinvolte, due sentenze di condanna a Milano a Genova, centinaia di udienze.
Tutto
inizia il 23 gennaio 2012, quando un militante della Lega si presenta in
Procura a Milano. In mano ha un esposto, poche righe.
Rimandano
ad articoli di giornale che raccontano operazioni a dir poco disinvolte da
parte del partito allora guidato da Umberto Bossi. Al centro di tutto, il
genovese Francesco Belsito, personaggio dalla carriera politica folgorante:
dagli inizi giovanili in Forza Italia, la gavetta come autista di Alfredo
Biondi, al prestigioso incarico di sottosegretario con delega per la
Semplificazione normativa sotto l’ultimo governo Berlusconi, sino all’ingresso
nel Cda di Fincantieri come vicepresidente in quota Lega.
È
Belsito che, in qualità di tesoriere del Carroccio, tra la fine del 2011 e
l’inizio del 2012 fa partire da Genova bonifici spericolati verso conti
correnti di Cipro, o ricicla fondi del partito in lingotti d’oro e in diamanti
in Tanzania.
Una
parte dell’inchiesta aperta a Milano, quindi, per competenza territoriale si
sposta in Liguria.
Mentre
su Belsito indagano pure le procure di Napoli, partendo dall’inchiesta sulla
P4, e Reggio Calabria, in un fascicolo su reati legati alla ‘ndrangheta.
La
prima sentenza è del tribunale di Milano: il 10 luglio 2017 Umberto Bossi e il
figlio Renzo, il “trota”, vengono condannati per appropriazione indebita: con i
soldi della Lega si compravano macchine, abbigliamento, gioielli, lauree.
Appena due settimane dopo, a Genova, altra condanna: Bossi, Belsito e gli ex
revisori dei conti Stefano Aldovisi, Diego Sanavio e Antonio Turci sono
giudicati colpevoli della maxi truffa sui rimborsi elettorali versati al
partito in riferimento agli anni dal 2008 al 2010. Quelle spese folli e
illegali della famiglia Bossi e di Belsito, dicono i giudici, vengono proprio
da quei rimborsi. Quantificati in 49 milioni.
La
caccia vera e propria inizia, quindi, due mesi dopo le condanne dell’estate
2017. Il tribunale di Genova, su richiesta del pubblico ministero Paola
Calleri, autorizza il sequestro dei 49 milioni. Ma i magistrati scoprono
ben presto che il piatto piange. Nelle casse del Carroccio trovano soltanto 3
milioni e poco più. Bisogna scovarne altri 46.
La
procura cerca allora altre strade. Dopo una serie di ricorsi e controricorsi,
la Corte di Cassazione autorizza il sequestro dei soldi che entreranno in
futuro sui conti leghisti, fino a raggiungere i 46 milioni mancanti. Proprio in
questi giorni sono attese le motivazioni della sentenza della Suprema Corte che
fissano le linee guida a cui dovrà attenersi la procura. Nel frattempo, i
magistrati compiono un’altra mossa. Non trovando soldi nei conti del partito,
li vanno a chiedere personalmente ai condannati Bossi, Belsito, Aldovisi,
Sanavio e Turci.
Così è
uno dei tre ex revisori, Stefano Aldovisi, a segnare la svolta nella vicenda.
Lo scorso 28 dicembre presenta un esposto alla procura genovese in cui, in
sostanza, dice: «Voi mi chiedete soldi che non ho, ma guardate questi
documenti». I fogli allegati partono da un articolo dell’Espresso del novembre
2015, che racconta una serie di iniziative finanziarie compiute dalla nuova
Lega dopo il crollo dell’impero di Bossi, sia nel periodo di leadership di
Maroni sia in quello di Salvini. Movimenti per spostare il denaro dai conti
correnti una volta scoppiati i guai giudiziari del partito, che guardano anche
all’estero.
Dall’esposto
nasce a gennaio l’apertura di un’inchiesta per riciclaggio. Alcuni movimenti,
secondo quanto trapela, sono stati ricostruiti. Nel 2016 dieci milioni partono
da un conto di “transito” della banca Sparkasse di Bolzano, uno degli istituti
scelti dai vertici leghisti, in direzione del Lussemburgo per approdare sul
conto di Pharus Management, fondo di investimento collettivo con sede nel
granducato. Poco meno di due anni dopo, nel gennaio del 2018, tre di quei
milioni compiono il percorso inverso per rientrare nei depositi della banca.
Secondo Gerhard Brandstaetter, presidente di Sparkasse, movimenti che con la
Lega non c’entrano nulla.
Di
opposto parere la procura. Che mentre chiede una rogatoria al Lussemburgo,
dieci giorni fa invia a Bolzano la Guardia di finanza di Genova: i militari
vanno dritti nel palazzo di Sparkasse di via Cassa di Risparmio. Altre
perquisizioni scattano nella filiale di Milano dove, fino al 2014, la Lega era
titolare di un conto, ma pure negli uffici e nelle case di alcuni dirigenti. Il
materiale sequestrato, sperano gli investigatori, potrà chiarire molto almeno
su una parte dei 46 milioni che la Lega ha fatto sparire.
La Repubblica, 25 giugno 2018
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