Gian Antonio Stella sul Corriere racconta la vita spericolata del sacerdote
incendiario
Il primo che
incendiò, tostando semi di zucca quand'era piccolo, fu un pagliaio. Da allora
Luigi Ciotti non ha smesso mai. Infiammare le coscienze è il senso della sua
vita. Per questo Vasco Rossi e lui si son presi: «Un fratello ritrovato. Due
vite spericolate. Come sono tutte le vite che si lasciano guidare dall'
inquietudine». Tanto da spingere il Blasco a voler introdurre lui il film «Così
in terra» che racconta la storia del «prete più amato e più detestato» nel
nostro Paese. Tutto cominciò, come racconta nella pellicola diretta da Paolo
Santolini che andrà in onda venerdì sera su Rai3, con un fiocco e
un calamaio. Nipote d'un mugnaio, «Pio Luigi Tabacchi, Moliner» (come ricorda
la lapide), figlio d'un manovale della montagna bellunese più povera, spinto
dalla miseria a emigrare addirittura in Calabria e poi a Napoli, nato a Pieve
di Cadore ma subito portato dai genitori qua e là dove c' era uno straccio di
lavoro fino a insediarsi a Torino, Luigi si scontrò subito, alle elementari,
col pregiudizio. La mamma gli aveva arrangiato qualcosa che paresse un
grembiule. Mancava il fiocco, però. E la maestra, spazientita, un giorno
sbuffò: «Montanaro!». Lui, offeso, afferrò il calamaio e glielo gettò addosso:
«Feci male, sia chiaro. Quel gesto, però, fu in qualche modo l'inizio di un
percorso. Quello di chi non accetta le ingiustizie».
È un viaggio
in Italia, il film «Così in terra». Nell'Italia inquieta. Ferita.
Periferica. Disoccupata. Miserabile. Brutta. Inquinata. Violenta. Quella che
affoga nei problemi. Ma che si scuote appena ricordi uomini come Don Peppino
Diana che a Casal di Principe scriveva «se la camorra ha assassinato il nostro
Paese, noi lo si deve far risorgere. Bisogna risalire sui tetti, a riavvicinare
la parola di vita» e perciò fu assassinato. Un viaggio tutto di corsa. Da un
appuntamento all' altro. Sempre attaccato al telefonino («Siamo in ritardo!
Siamo in ritardo!») mentre l' auto della scorta che gli hanno imposto da 29
anni e in particolare da quando Totò Riina fece sapere che lo voleva morto
(«Ciotti, Ciotti putissimu pure ammazzallo») schizza via da una parte all'
altra della penisola. L'incontro coi giovani sull' usura nel Lazio («Siamo in
ritardo! Siamo in ritardo!»). La preghiera in ricordo di una vittima della
nuova mafia pugliese («Siamo in ritardo! Siamo in ritardo!»). Il dibattito
nella scuola lombarda sulla corruzione («Siamo in ritardo! Siamo in ritardo!»).
Una vita a perdifiato.
Eccolo
arrancare sui monti calabresi col vescovo di Locri Francesco Oliva fino a una
radura dove Maria Teresa racconta durante la messa di essere la vedova di «un
meccanico ucciso a Locri circa 20 anni fa» e di essere «rimasta sola con tre
bambini piccoli» e di non aver ancora avuto giustizia. Eccolo a un raduno di
preti nel Casertano dove un sacerdote racconta di un parroco che, nonostante
fosse stato messo in guardia, ha accettato i soldi di un camorrista per
restaurare il tabernacolo e così adesso «Gesù sta in una custodia di camorra».
Eccolo dalle parti di Trapani che incoraggia i ragazzi annunciando entusiasta
la nascita d' una cooperativa di giovani per usare terreni confiscati a Matteo
Messina Denaro e la scelta di dare a questa cooperativa il nome di Rita Atria,
che si rivoltò contro la mafia cui era legata la sua famiglia e si uccise a
diciotto anni per la disperazione d' esser stata isolata.
È scomodo,
Luigi Ciotti. Ustionante. Incontentabile. La «capacità di faticare e la santa
prepotenza», per usare le parole di Fiamma Nirenstein, con cui in cinquant'anni
ha raccolto intorno a sé centinaia di migliaia di persone prima col gruppo
Abele e poi con la rete associativa di Libera, non piacciono a tutti. Lo sa. Ha
pestato i piedi a tanti. E sa pure che il rigore deve valere per tutti. Basti
sentire una sfuriata nel bel mezzo di un' assemblea: «Noi chiediamo la
tolleranza zero agli altri. Ma dobbiamo chiedere la tolleranza zero anche
all'interno nostro. Perché nei nostri mondi e nella nostra realtà ci sono anche
furbi. Che cosa fai? "Antimafia! Antimafia!". Cosa fai? "Parlo
sempre di legalità! Ho fatto qui, ho fatto là, vado su, vado giù...".
Nooo, bisogna esser sobri. Guardare alla sostanza dei problemi. Tutti a
promuover convegni, convegni, convegni...». La guerra vera alla mafia, è certo,
la fanno i testimoni ai quali dà voce. Come Vincenzo Agostino, che dal giorno
lontano in cui ammazzarono suo figlio Nino e la moglie incinta non si è più
tagliato la barba e i capelli e come una specie di tragico mago Merlino tuona
in chiesa: «Io nella città di Palermo non scenderò mai più e non mi taglierò
più barba e capelli se non avrò verità e giustizia».
Davanti ai
ragazzi, li prende di petto. Chiamandoli per nome: «Nel primo anniversario
della strage di Capaci in cui era morto il giudice Falcone con sua moglie, ero
a Palermo. Vicino a me c'era una signora tutta vestita di nero che piangeva. In
modo ininterrotto. Capisci, cara Matilde, la vedevo piangere, piangere,
piangere Non riusciva a fermare il suo pianto disperato. Non sapevo cosa fare.
Piangeva. A un certo punto mi prese la mano. Mi scosse. Mi guardò in faccia.
Non dimenticherò mai la domanda che mi fece: "Perché non dicono mai il
nome di mio figlio?". Capii. Certo, era giusto ricordare Falcone, la
moglie e "i ragazzi della scorta". Ma il primo diritto di quei
ragazzi era d' essere chiamati per nome. Quella mamma voleva sentire il nome di
suo figlio». Chi non lo sopporta lo vede solo come una specie di Savonarola
bravissimo, con la sua retorica torrenziale, a sfruttare le emozioni. Altri
restano folgorati da quella capacità magnetica di cogliere un punto per tirarsi
dietro chi ancora vuole credere in qualcosa. Vasco non ha dubbi: «È un uomo di
grande umanità, profondità, semplicità. Col quale mi sono subito sentito a
casa». Gli piace, dice, «la sua predilezione per la diversità. Gli strambi. I
freaks. I dimenticati. I giudicati». E poi «la sua cura della terra in quanto
tale e non come semplice prologo del cielo». Perché vedere il film? Risponde: «Perché
fa pensare».
5 giugno 2018, Gian Antonio Stella, Corriere della Sera
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