Ezio Mauro
Li conosce
bene, li sta saggiando ad uno ad uno. Li tocca, li scuote, li prova. Interpretando
il suo ruolo di ministro degli Interni come quello del Grande Guardiano, li
ispeziona ogni giorno, indicando alla parte della popolazione più sensibile al
tema della sicurezza il perimetro della sua stessa inquietudine, incentrandolo
su figure precise che anima personalmente evocandole ad una ad una dal fondo
del paesaggio nazionale, come la minaccia incombente sull’estate italiana del
2018: lo straniero, il migrante, il clandestino e — da ultimo — il rom.
Schierarli
insieme significa creare una mappa ideologica e in buona parte artificiale
dell’ansia italiana, metterla a fuoco in tutti i telegiornali, renderla
canonica e istituzionale con la benedizione del governo, come se il Paese
vivesse dentro una permanente grande emergenza nazionale. Per poi ingigantire
l’opera meritoria del ministro di polizia che non ha ancora discusso una vera
misura sull’immigrazione con l’Unione Europea, con la Libia o la Tunisia, con
gli altri Paesi del Mediterraneo, ma ha chiuso porti alle navi Ong e annunciato
censimenti dei rom, pronunciando slogan in favore di telecamera mentre
trasformava l’emigrante e lo zingaro nei nuovi nemici degli italiani.
Gran parte
della scommessa — oggi in crisi — della rappresentanza si gioca nella partita
tra sicurezza e diritti. Una volta si diceva tra sicurezza e libertà, ma quando
il sentimento della sicurezza si riduce, entra in crisi la percezione stessa
degli spazi privati di libertà. Quanto ai diritti, purtroppo, oggi abbiamo
smarrito la coscienza che fanno crescere la cifra complessiva della qualità del
nostro sistema di vita, e siamo disposti a comprimerli, a vederli ridursi, in
cambio di quote di sicurezza: dalle quali vorremmo in realtà la restituzione di
un mondo solido e forte, che l’onda globale della mondializzazione prima e la
crisi più lunga del secolo dopo hanno frantumato per sempre.
Alzare lo
sguardo su questo universo nuovo, per puntare il dito contro lo zingaro è quasi
incredibile. Non lo è più se il rom si collega al clandestino, al migrante
raccolto in mare, allo straniero. Scopriamo che c’è del metodo in questa
teoria: prima l’individuazione mediatica di una minoranza, poi la sua
trasformazione politica in devianza, quindi l’indicazione polemica delle sue
condizioni come un privilegio, quindi la promessa ideologica di misure
discriminatorie che metteranno fine a questi presunti abusi, col sottinteso che
vengono praticati ( «la crociera» , «la pacchia» ) a danno degli italiani.
In questo
modo il governo non solo si allontana dai principi fondamentali della cultura
liberal-democratica che hanno sempre funzionato da punto di riferimento per il
sistema politico italiano nel Dopoguerra. Ma soprattutto arriva consapevolmente
a sfiorare l’interdetto di alcuni tabù della democrazia occidentale nati
addirittura dalla civiltà giudaico-cristiana: non dare soccorso nei nostri
porti agli uomini raccolti nel Mediterraneo è infatti un modo di ammiccare,
senza dirlo, a chi pensa che non bisogna raccogliere più nessuno in mare,
basta, siamo forse noi i custodi dei nostri fratelli?
C’è poi
l’abuso costante dell’ignoranza della storia. Bisognerà pure rileggersi di che
cosa la colta e nobile Europa è stata burocraticamente capace nel pieno della sua
prima modernità novecentesca nei confronti degli ebrei, e ben prima della
soluzione finale. Si inizia con gli stereotipi negativi, i pregiudizi, che
producono esclusione simbolica, seguono i comportamenti che provocano
esclusione sociale, si aggiungono le misure che realizzano esclusione
discriminatoria. Pierre- André Taguieff lo spiega bene, ricorda la tecnica
della differenziazione, la compressione crescente dei diritti e la progressiva
riduzione dello spazio di cittadinanza. La strumentazione ottusa di queste
azioni è esattamente la ricognizione censuaria, la “ lista”, perché sulla
distinzione tra la popolazione legittima e gli “altri” si basa l’intento della
salvaguardia del “noi”, della purificazione.
Dunque la
neutralità burocratica e l’innocenza tecnica del “censimento” sono in realtà
gli strumenti apparentemente neutri di un’operazione politica di
delegittimazione, discriminazione ed emarginazione che la storia ha conosciuto.
Tecniche amministrative al servizio di pratiche di governo ideologiche per
cercare, stanare, registrare, additare, distinguere, e soprattutto separare
persone. È il timore fobico di sempre che ritorna: l’ansia malata del “
passeggero clandestino”, dell’infiltrato estraneo e parassita nell’organismo
nazionale puro e incontaminato, da preservare nelle sue sostanze primitive,
anzi originarie, meglio germinali, la pelle bianca e il sangue, origine dei
miti della specie e della razza.
Ovviamente
non è nemmeno il caso di dire che i contesti sono diversi, i personaggi
fortunatamente sproporzionati, uguale soltanto il silenzio degli intellettuali.
Ma il grumo ideologico, nel suo piccolo, è intatto, quando trasforma il
migrante o lo zingaro in colpevole davanti al tribunale del popolo, inventa il
peccato d’origine e ricorre, come Mario Calabresi ha ricordato qui, al
meccanismo tribale del capro espiatorio: nel quale non a caso non sono i
cittadini a decidere ma è la folla, che dopo la crisi ritroverà la sua unità
attraverso il sacrificio caricando sul capro espiatorio tutte le colpe di tutti,
ed espellendolo dalla comunità. Una comunità ridotta a tribù indigena, come una
riserva indiana. Ecco cosa rischiamo di diventare.
La Repubblica, 20 giugno 2018
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