Caravaggio, la natività rubata a Palermo |
Umberto Santino
La Procura di Palermo ha accolto il messaggio della Commissione
parlamentare antimafia, che aveva presentato all’Oratorio di San Lorenzo una
relazione sul furto del Caravaggio, riaprendo l’inchiesta. A dire della
Commissione il furto, avvenuto nella notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1969,
sarebbe stato opera della mafia.
A dire il vero, le dichiarazioni di “pentiti” richiamate nel testo della
relazione, pare che continuino la telenovela inscenata dopo la sparizione della
Natività, in parte rivedendola e ribaltandola. Francesco Marino Mannoia ha
smentito quello che aveva detto prima, cioè che era stato lui a rubare il
quadro, che l’aveva danneggiato irreparabilmente e che dopo varie vicissitudini
il dipinto è stato distrutto.
Il pentito considerato più affidabile è Gaetano
Grado che ha rivelato che il quadro sarebbe finito nelle mani di Gaetano
Badalamenti, a quel tempo al vertice di Cosa nostra, che avrebbe saputo del
valore del dipinto e l’avrebbe fatto portare in Svizzera, dove è stato
vivisezionato e venduto. A dire dei commissari, sarebbero stati individuati i
nomi degli esecutori e di coloro che hanno custodito il quadro e trovato come
collocarlo, a pezzi, sul mercato clandestino. Nomi secretati e affidati alla
Procura.
Rimane un mistero come è stato ritagliato il quadro. Bernardo Tortorici,
presidente dell’Associazione degli Anici dei musei sostiene che il taglio è
stato fatto da professionisti, con perizia chirurgica; secondo la Bindi,
presidente della Commissione, erano dei balordi , assistiti però da esperti. In
ogni caso, fin dall’inizio o a un certo punto, sarebbe entrata in campo la
mafia.
Che la mafia abbia avuto e continui ad avere un ruolo nel mercato illegale
dell’arte non è una scoperta recente.
Già le cronache della seconda metà dell’Ottocento parlano di furti di
reperti al Museo di Palermo. Ne riferisce Diego Tajani, procuratore a Palermo
nel 1871: «Gli oggetti più preziosi per centinaia di migliaia di lire di valori
effettivi e di valori scientifici ed archeologici» vengono ritrovati in casa di
una guardia di pubblica sicurezza, applicata al gabinetto del questore.
Delinquenti, più o meno classificabili come mafiosi, operavano avvalendosi di
complicità all’interno delle istituzioni. Che sui beni culturali si sia giocata
una partita con lo Stato, quella che in anni più recenti si è chiamata
“trattativa”, lo si è visto con gli attentati del 1993, a Roma, a Firenze, a
Milano, ma nel caso della Natività di Caravaggio è una partita in cui a perdere
è stata soprattutto la città di Palermo.
Qualche giorno prima della presentazione della relazione, sempre
all’Oratorio di San Lorenzo , è stato presentato un libro di Rossana Dongarrà,
che coniuga fiction e cronaca, con qualche illuminante riflessione. Palermo si
è accorta del Caravaggio dopo che era sparito. La Perdita ha innescato il
Rimpianto, tardivo atto di contrizione che rimanda al livello culturale della
città, all’assoluta ignoranza o pervicace disattenzione per il suo patrimonio
culturale. Anche il sacco di Palermo, unanimemente addebitato alla mafia, è
stato più opera di un patriziato incolto e in bolletta che dei mafiosi, ancora
non dotati di capitali adeguati per avere il monopolio delle distruzioni e
della cementificazione. Ma i professori di architettura e di urbanistica, gli
intellettuali, i funzionari delle soprintendenze, i cittadini colti e
beneducati, dov’erano? La mafia c’era, c’è e continua ad esserci, ma vedere
sempre e dappertutto mafia, e solo mafia, alla fine diventa un alibi. Un modo
per condannare chi è già stato marchiato come criminale, onnipresente e
onnipotente, e autoassolversi.
La Repubblica Palermo, 29 giugno 2018
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