Guido Lo Forte in un disegno di Nicolò D'Alessandro |
Ancora oggi, fanno a gara per ribaltare mediaticamente il verdetto contro
Giulio Andreotti con tante fake news – dice Guido Lo Forte – ma il sistema di
relazioni esterne svelato dal processo, il poli-partito della mafia trasversale
evocato dal generale Dalla Chiesa, probabilmente esiste ancora e s’è di nuovo
inabissato». Passato e presente si intrecciano in modo continuo nel libro che
il pubblico ministero del caso Andreotti, oggi in pensione, ha scritto con l’ex
procuratore capo di Palermo Giancarlo Caselli. Si intitola “La verità sul
processo Andreotti” (Laterza).
L’ultima inchiesta su un potente
siciliano, come Antonello Montante, ha riproposto il tema dell’intreccio di
relazioni. Cosa c’è di nuovo in questo sistema?
«Non posso ovviamente entrare nel merito di una inchiesta in corso, che
dovrà essere verificata nelle sedi competenti. In generale, posso dire che la
compenetrazione storica fra mafia e borghesia ha continuato ad essere tale, ma
è riemersa negli ultimi anni in maniera più subdola, infiltrando qualche volta
persino il campo di una declamata antimafia».
Quanto fu difficile, all’epoca, far
emergere il sistema di potere attorno ad Andreotti? I pentiti parlarono di
mafia e politica solo dopo la morte di Falcone e Borsellino.
«Dopo le bombe del ’92, anche grazie al processo Andreotti, sembravano
esserci le condizioni necessarie perché la stragrande maggioranza dei cittadini
potesse vedere la mafia come un nemico alieno da ricacciare lontano e sconfiggere.
Ma col passar del tempo, sia pure con alcune importanti eccezioni, anche
nell’ambiente della magistratura si iniziò a percepire una sorta di presa di
distanza. Un ritorno di quella “grande scaltrezza”, che – per dirla con
Giuseppe Di Lello – i magistrati avevano spesso mostrato, nel riconoscere in
teoria la pericolosità della mafia per le sue connessioni con il potere
politico ed economico e – nel momento di passare alle prassi giudiziarie – nel
perseguire costantemente la sola ala militare dell’alleanza».
Dopo il processo Andreotti, arrivò quello
a Dell’Utri.
«Casi che si possono leggere in parallelo, una realtà torbida e
sconvolgente. Avrebbe dovuto essere una base di partenza ineludibile per
qualunque riflessione sul tema dei rapporti tra mafia, politica ed
imprenditoria. Invece ne è derivata, con formidabile sostegno mediatico, una
tempesta di vere e proprie bufale. L’obiettivo non era solo il processo in sé.
In filigrana si può percepire un problema, ben più rilevante, di democrazia.
Negare o distorcere la verità, era, ed è, come svuotare di significato negativo
i rapporti tra mafia e politica. E legittimarli».
La tempesta mediatica si era già abbattuta
su Falcone e Borsellino, ai tempi del maxiprocesso.
«Non vengono mai ricordati abbastanza gli ignobili attacchi che subirono in
vita. Siamo alla vigilia dell’anniversario del 23 maggio, non si deve
dimenticare. Anche perché la storia si è ripetuta. Proprio come era accaduto
nel 1987 al pool di Falcone e Borsellino, esattamente dieci anni dopo,
iniziò contro i magistrati della Procura di Palermo una analoga campagna di
delegittimazione, con la ripetizione di un repertorio collaudato di
insinuazioni e accuse. Anche in questo caso, dal piano delle critiche – ovviamente
sempre lecite – al modo in cui vengono istruiti i processi o vengono utilizzati
i pentiti, si è passati alle aggressioni e alle calunnie. Nel tentativo di
demolire la credibilità della Procura di Palermo si sono dati da fare in molti,
soprattutto in determinati ambienti politico-editoriali».
Di recente, il pm Di Matteo ha accusato il
Csm di non aver difeso i magistrati dagli attacchi della politica e di certa
informazione. Cosa ne pensa?
«Nino Di Matteo, magistrato di grande integrità e professionalità, ha
certamente ottime ragioni a sostegno delle sue affermazioni. Sul clima del Csm
basta leggere quanto ha dichiarato uno dei suoi più autorevoli componenti,
Piergiorgio Morosini, in un’intervista di due anni fa: “Qui è tutto politica.
Mi tocca assistere alla scelta di candidati che per competenze e curriculum non
meriterebbero quel posto”. Ne ho avuto anch’io personale esperienza, quando nel
2014, sebbene fossi il primo in graduatoria e già designato a larga maggioranza
in commissione all’incarico di procuratore di Palermo, la mia imminente e quasi
certa nomina venne bloccata dal presidente Napolitano, con una lettera firmata
dal segretario generale della presidenza della Repubblica che adduceva la
necessità di rispettare, anziché un ordine di precedenza basato sulla rilevanza
strategica dell’ufficio da ricoprire, un inedito ordine cronologico nelle
procedure di nomina, criterio che non era mai stato applicato prima, e che
ovviamente non lo è mai stato neanche dopo. Il Csm, che avrebbe dovuto puntare i
piedi in difesa della sua autonomia, non fece nulla, a parte alcuni
consiglieri, che contestarono invano il diktat presidenziale, parlando di un
Consiglio dimezzato».
Nel 2016 presentò la sua candidatura come
procuratore generale di Firenze.
«Ero ancora una volta primo in graduatoria, ma la mia candidatura non venne
presa in considerazione, suscitando un’accorata reazione del presidente della
Cassazione Giovanni Canzio, il quale inutilmente ricordò a un Csm
inguaribilmente correntizio che “Lo Forte ha fatto la storia dell’antimafia in
Sicilia, quella vera”».
Ancora oggi restano i misteri di Palermo.
Attraverso i processi celebrati, è possibile cogliere una costante nei delitti
eccellenti avvenuti negli anni in cui erano più forti le relazioni fra mafia e
politica?
«Cosa nostra ha costituito, e può continuare a costituire, componente e
strumento di un sistema di potere illegale più ampio. Un sistema criminale che
si può raffigurare come un complesso edificio, in cui l’organizzazione mafiosa
ha rappresentato una pietra angolare; ma come tutti gli edifici, ci sono anche
altri piani e altri abitanti».
Guido Lo Forte in alto nel disegno di
Nicolò D’Alessandro è nato a Palermo il 29 novembre del 1948. È stato
pubblico ministero al processo Andreotti e procuratore aggiunto a Palermo. Ha
chiuso la carriera di magistrato da procuratore della Repubblica a Messina.
Adesso è in pensione
La
Repubblica palermo, 20 maggio 2018
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