I vescovi siciliani riuniti sotto il tempio della Concordia ad Agrigento |
FABRIZIO LENTINI
L’analisi. Il mondo cattolico e i boss.C’è voluto un quarto di secolo per passare dall’urlo
al ragionamento, dall’anatema all’argomentazione
C’è voluto un quarto di secolo per passare dall’urlo al
ragionamento, dall’anatema all’argomentazione,
dal verbum al logos. C’è voluto un quarto di secolo per
dare contorni precisi al “peccato di mafia”, per incanalare la santa rabbia
dentro le paratie dell’elaborazione teologica e dell’azione pastorale. Fino a
ieri le parole più forti, le omelie più vigorose, le condanne più
inequivocabili pronunciate dalla Chiesa contro i boss e i loro protettori erano
state il frutto deperibile di slanci d’impeto, da scatti di umanissimo furore.
Fu l’esasperazione, il senso di impotenza dinanzi all’ennesimo delitto
eccellente della mafia, l’uccisione del prefetto Dalla Chiesa con la moglie e
un agente di scorta, a indurre il cardinale Pappalardo a scandire dal pulpito
della basilica di San Domenico, il 4 settembre 1982, appena diciotto ore dopo
l’agguato, l’invettiva contro lo Stato che discute mentre Palermo viene espugnata
come Sagunto. Un’omelia funebre scritta di getto, in una notte, sentendo morire
«la speranza dei palermitani onesti». E fu lo shock per lo struggente incontro
con i genitori del “giudice ragazzino” Rosario Livatino, la mattina del 9
maggio 1993, a spingere papa Wojtyla a stravolgere la scaletta del discorso da
pronunciare poche ore più tardi nella Valle dei templi. Un testo scritto e già
distribuito ai giornalisti ma divenuto carta straccia di fronte alle immagini
possenti rilanciate dai tg. Quelle che mostrarono un Giovanni Paolo II, la mano
destra chiusa a pugno, tuonare contro la mafia, «civiltà della morte». E infine
agitare verso l’alto l’indice ammonitore per gridare «ai responsabili» di
convertirsi, perché «una volta verrà il giudizio di Dio».
Parole che suonarono definitive: un giro di boa, uno spartiacque, un punto
di non ritorno. Mai più nella Chiesa ci sarebbe stato spazio per le
minimizzazioni indispettite del cardinale Ruffini, per il devozionismo plateale
dei mafiosi, per i silenzi pavidi delle gerarchie. Ma a capire che le cose
erano cambiate, prima della Chiesa, fu Cosa nostra, che quattro mesi dopo
l’anatema di Wojtyla uccise don Pino Puglisi, arrivato a Brancaccio con fama di
“normalizzatore” e invece diventato il punto di riferimento di una bella fetta
del quartiere che non accettava lo strapotere dei boss. Fino a scontare la
freddezza del cardinale Pappalardo, pioniere della condanna della mafia
dall’altare, ma sempre timoroso delle strumentalizzazioni politiche. «Non sono
un vescovo antimafia», diceva di sé stesso.
«Non era un prete antimafia», disse di Puglisi celebrando il suo funerale.
Ma è proprio intorno alla figura di don Pino che ha preso forma, nei
vent’anni successivi, la posizione della Chiesa siciliana su mafia e antimafia.
Perché, da un lato, la causa di beatificazione del parroco di Brancaccio,
promossa nel 1999 dal cardinale Salvatore De Giorgi e conclusa, dopo un
laborioso iter, nel 2013, è oggi un punto di riferimento fondamentale, anche
per chi nella Chiesa coltivasse ancora qualche dubbio sulla necessità di
schierarsi. Puglisi, afferma la Congregazione per le cause dei santi, è un
martire cristiano, perché i mafiosi lo hanno assassinato «in odium fidei».
Insomma, chi è affiliato a Cosa nostra, ancorché battezzato, è un nemico
della fede, fa parte di una «struttura di peccato». Su questa linea la
scomunica degli “uomini d’onore”, e dunque la loro esclusione dai sacramenti,
più volte ribadita dalla Conferenza episcopale, anche se sulla carta già
vigente dagli anni Cinquanta, dai tempi cioè del cardinale Ruffini.
Dall’altro lato, l’indicazione del modello di padre Puglisi ha costituito fino
a oggi, per la Chiesa siciliana, una scorciatoia per evitare di fare i conti
con l’esigenza di sciogliere le contraddizioni interne, di elaborare una
pastorale antimafia, di definire con precisione i contorni del “peccato di
mafia”, di stabilire una linea di comportamento uniforme per i parroci che
impedisca processioni con “l’inchino” davanti a casa dei boss, padrinati
imbarazzanti come quello di Riina junior, infiltrazioni nelle confraternite,
sponsorizzazioni delle feste rionali, ma anche eccessi “giustizialisti” a
favore di telecamera, come l’esclusione del figlio diciassettenne del boss
Giuseppe Graviano dalla cresima in cattedrale.
Le coraggiose prese di posizione di alcuni vescovi come Michele Pennisi a
Monreale (la diocesi governata fino a vent’anni fa dal discusso Salvatore
Cassisa), il lavoro di responsabilizzazione dei parroci avviato a Palermo
dall’arcivescovo bergogliano Corrado Lorefice (che debuttò ricordando
dall’altare anche i martiri “laici” come Peppino Impastato) potrebbero
riattivare energie spente in due decenni di bonaccia. Il documento diffuso ieri
dà eco a queste istanze, con forti accenti autocritici sui «silenzi» del passato
remoto e, in quello più recente, sull’incapacità di «passare dalle parole ai
fatti». Servono altre voci alte, altri pugni branditi e altri indici puntati,
alla maniera di Karol Wojtyla nella Valle dei templi. Il beato Puglisi non
servirà a molto se resterà in una nicchia sotto l’aureola. Converrà tirarlo giù
dagli altarini adorni di ceri e riportarlo nelle strade da dove è venuto.
Perché aiuti tutti, credenti e no, a farsi accendere dalla santa rabbia, a
cacciare i mercanti (e i mafiosi) da tutti i templi.
La Repubblica Palermo, 10 maggio 2018
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