Pietro Anastasi |
MARIO PINTAGRO
D’estate, quando il sole di Sicilia è implacabile, il volto di Anastasi
virava rapidamente verso lo scuro prossimo all’antracite, garantendogli
un’abbronzatura duratura e precoce. Dev’essere stato allora, giovanissimo
raccattapalle al Cibali, che qualcuno gli appioppò il soprannome di “Pietro u
turco”. Lo avessero chiamato “il greco” forse avrebbe avuto più senso perché
con quel cognome gli Elleni ancora oggi indicano la resurrezione di Cristo.
Questo significa la parola greca Anastàsi. Ma lui non si curava di nulla. «A
dodici anni passavo tutto il giorno a giocare al pallone, così tanto che mi
abbronzavo, e sognavo dietro la porta dello stadio catanese raccattando i
palloni che andavano fuori. Scattavo prima degli altri. E sognavo. Sognavo
guardando i miei idoli, Charles, Sivori. Di Charles conservo ancora la foto nel
portafogli. Mia moglie dissente e sostiene che in quel posto dovrei mettere la
sua foto o quella dei figli».
Eccolo Pietro Anastasi da Catania, natali
al quartiere Fortino, quello di Porta Garibaldi, festeggiare i suoi
settant’anni. Ma c’è un altro anniversario che il centravanti di Juve e Inter
di un’epoca, celebra. È il titolo europeo del’68.
«L’unico che abbia vinto l’Italia, con la finale ripetuta una seconda volta
perché allora dopo un pareggio si usava così. Aprì le marcature Riva e io misi
il suggello con il secondo gol. De Sisti veniva da mezzala in avanti e mi passò
la palla. Io la stoppai, la palla si alzò e la colpii infilandola
nell’angolino. Un trionfo. Diventammo cavalieri della Repubblica e per quel
titolo continentale il presidente Saragat dovette fare una variazione al
protocollo perché ero minorenne, la maggiore età scattava a ventun anni»
A vent’anni il titolo europeo. Ma
cominciamo dalla Massiminiana.
«Era una squadra vivace, quasi tutta etnea, che giunse sino alla serie C.
Ero il più piccolo della truppa, quello coccolato da tutti. Il presidente
Massimino mi amava e si faceva amare. Era un calcio genuino, essenziale. Mi
pagavano ventimila lire e i pasti in trattoria. Furono i primi soldi guadagnati
correndo appresso al pallone. Sono passati tanti anni ma il legame con quei
giocatori è rimasto. Ho casa a Rometta e quando torno vado a trovare gli ex
compagni».
Da Catania a Varese e poi, da lì, nella
vecchia Signora del calcio italiano.
«Il presidente della Juventus Gianni Agnelli fece di tutto per avermi.
Lo avevo impressionato tanto dopo una tripletta segnata contro la sua squadra.
Fu proprio mentre si vociferava di un mio passaggio all’Inter che Agnelli
chiamò il presidente del Varese e stoppò la trattativa nerazzurra. Io dovevo
essere bianconero. E pur di realizzare l’affare chiamò il presidente Borghi,
industriale degli elettrodomestici, e al prezzo pattuito aggiunse anche
una fornitura di compressori per frigoriferi».
Le cronache dell’epoca raccontano che
l’affare si chiuse con 660 milioni di lire.
Una cifra pazzesca, forse la maggiore
sborsata per un calciatore in tutto il mondo.
«Avevo gli occhi di tutti addosso. Ma la domenica, quando entravo in campo,
avvertivo la responsabilità enorme di dare risposte alle migliaia di
tifosi assiepati nelle curve. Erano ragazzi del sud che avevano lasciato
la loro terra in cerca di fortuna, che si facevano il mazzo nelle industrie,
dovevano guadagnarsi la pagnotta. Io, al confronto, ero un privilegiato che
aveva svoltato. E dovevo segnare il gol per loro. Dovevo riscattarli dalle loro
angustie. La Juve era una squadra a trazione sudista: c’erano Cuccureddu,
Furino, Causio, Longobucco, noi eravamo la bandiera del sud che sventolava e
portava alto l’orgoglio meridionale. Ogni tanto nei tackle qualcuno mi rifilava
un colpo di terrone e io rispondevo a tono: e tu sei polentone, ma guadagni
molto meno di me. Oggi nessuno si azzarda a dirmi una cosa simile e tutti mi
rispettano».
Nella Juve di Agnelli, Anastasi crea un
tandem del gol con Bettega e vince tre scudetti e una Coppa Italia. Poi è lo
scambio dei centravanti: Boninsegna alla Juve e Anastasi all’Inter. Una svolta
epocale
«Ma sono stato io a chiedere di andare via, non mi trovavo più bene».
L’hanno paragonata a Schillaci, il
centravanti capocannoniere di Italia ‘90.
«Orgoglioso del paragone Istintivo come me, con un fiuto spiccato per il
gol. Siciliano con tanta voglia di sfondare e anche lui approdato dal Sud nella
Juve».
Quando lasciò Catania per Varese e poi
Torino c’era un profondo divario fra Nord e Sud. E adesso?
«Erano i tempi delle telefonate alla Sip. Per chiamare casa bisognava
andare lì. E a me, ragazzo di famiglia operaia, Torino apparve come una città
molto progredita. Ma oggi le cose sono cambiate, le distanze si sono
accorciate, non c’è più quell’arretratezza».
Il calcio è cambiato, si riconosce in questo sport dove girano milioni e
milioni di euro?
«Tutto cambia. Anche gli ingaggi dei giocatori. Noi guadagnavamo poco e
loro oggi molto. Beati loro. Non è cambiata la Juve: cerca di vincere sempre
tutto».
L’intervista finisce qui, ma Anastasi chiede se potrà leggere l’edizione
siciliana di Repubblica in Lombardia dove risiede da più di cinquant’anni. E
alla risposta negativa dichiara: «vorrà dire che mio fratello comprerà il
giornale a Catania e me lo leggerà. Io non ho internet e quelle cose lì».
Pietro Anastasi da Catania, 70 anni qualche giorno fa, preferisce rimanere
ancorato all’analogico dei giornali, al bianco e nero della tv di Bernabei e al
bianco e nero della Juve di Agnelli. Ma è meglio così.
La
Repubblica Palermo, 15 aprile 2018
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