GIUSEPPE CAMPIONE
Nella vicenda Moro è come se cominciassimo a muoverci entro un orizzonte di
realtà, anche se non ancora di verità. «C’è un punto, da qualche parte, in cui
tutto finalmente si incontra e diventa possibile conoscere le cose nel loro
insieme»: questo l’incipit di Marco Damilano nel suo “ Un atomo di verità, Aldo
Moro e la fine della politica in Italia“. Un libro, per Feltrinelli, che esce
in questi giorni quasi a volerci ricordare i 40 anni dalla tragedia iniziata il
16 marzo del 1978 in via Fani. Mesi fa la relazione della Commissione
parlamentare di inchiesta era stata approvata all’unanimità, con una sola
astensione.
Alla luce delle indagini compiute su rapimento e omicidio, il tutto non
appare affatto come una pagina puramente interna dell’eversione di sinistra, ma
acquista «una rilevante dimensione internazionale. Emerge infatti un più vasto
tessuto di forze che, a seconda dei casi, operarono per una conclusione felice
o tragica del sequestro». Certo al di là dell’azione di fuoco di via Fani.
Certo con tutto il cinico carico di « verità dicibili » e con il diabolico
cinismo della «destabilizzazione per stabilizzare» all’interno della «
rilevante dimensione internazionale» che finirà con l’esigere, anche qui
cinicamente, il necessario assassinio di Moro. E allora ancora riinvii, perché
il lavoro non era “ esaustivo”, anche se « rende molto più chiaro uno degli
eventi più drammatici della storia della Repubblica».
Comunque le attività condotte «restituiscono... a Moro un grande spessore
politico e intellettuale sue qualità di statista e di cristiano » . Damilano
ricorda un passaggio di quella mattina del 16 marzo. Quella mattina Moro, a
parte le tesi di laurea all’università, doveva lavorare alla stesura finale di
un articolo per “Il Giorno”, nel quale riprendeva una non convergenza,
sull’Unità, sul significato del ’68 tra Amendola e Petruccioli. È significativo
che Moro si dissociasse dalla eccessiva prudenza di Amendola. Moro avvertiva
l’eco « di una cultura che sospettava di quello che si muoveva nella società ».
La politica invece per Moro era esattamente il contrario, « aderenza alla
realtà e dominare con intelligenza gli avvenimenti ». E come avrebbe poi detto
Sciascia, sarà questa la sua condotta anche da prigioniero. E a Racalmuto
Damilano rincontrerà «Moro, Pasolini e Sciascia, il cattolico democristiano, il
comunista eretico, il laico illuminista e volterriano » ... e le loro
enigmatiche e tragiche correlazioni, come le chiamavaSciascia. Lì, sfogliando
alla Fondazione le pagine dell’affaire Moro, Damilano rivide parole di
Sciascia: «Ma questo Moro mi ha dato una inquietudine che sconfinava
nell’ossessione... Se 10 anni prima mi avessero detto che Moro avrebbe cambiato
la mia vita avrei riso e invece è così».
Quattro anni prima, nel ’ 74, quando aveva pubblicato il noir politico
“Todo modo”, «affresco barocco, ritratto deforme, romanzo sulla crisi della Dc,
nell’anno in cui il potere del partito Stato aveva cominciato a tremare, dopo
la sconfitta sul referendum e Moro era tornato a Palazzo Chigi», ma tutto si
era appesantito. E il film di Petri diventerà ancora più angosciante.
Era come il processo che Pasolini voleva intentare a tutta una classe
dirigente. Poi Pasolini non ci sarà più. «Era il giudice Sciascia che era
tentato dal fare giustizia... contro i colpevoli della mutazione antropologica?
Già: erano scomparse le lucciole. Ma « l’intuizione di Pasolini, più poetica
che politica, era il vuoto » , scrive Damilano. E « i democristiani, scriveva
Pasolini, coprono con la loro manovra... il vuoto » . « Persino Aldo Moro: cioè
per una enigmatica correlazione, colui che appare il meno implicato di
tutti...».
Ma Moro aveva riconosciuto che la Dc era stata logorata da tanti anni di
governo senza ricambi. Aveva avvertito: « L’avvenire non è in parte più nelle
nostre mani » . E aveva pensato a incontri sulle cose che avrebbero potuto
unire, a patto, dirà infine, di cambiare anche noi. Aggiungerà Damilano: «dal
momento del rapimento era avvenuta una trasformazione » una sorta di
cambiamento interiore, e questo anche per Sciascia: «un’altra verità»,
«un’esigenza di risarcimento », un restituire a Moro quell’umanità che i
brigatisti gli avevano tolto, anche e soprattutto per logiche internazionali,
come dalla commissione Fioroni.
In realtà dice Corrado Guerzoni, più volte citato da Damilano (era stato
vicinissimo a Moro, come portavoce, per due decenni), lo Stato decise di non
salvarlo: Aldo Moro fu considerato morto fin dal primo giorno. E per questo
Cossiga, che aveva consentito alla demolizione personale di Moro sarebbe
diventato presidente della Repubblica, su proposta dc, con l’assenso di quei
comunisti che un anno prima volevano fosse giudicato per alto tradimento. « E
nelle picconate di Cossiga, sferrate dal Quirinale e non da una prigione
insonorizzata, c’erano le premesse del crollo del sistema politico».
E anche del cinismo andreottiano.
La Repubblica Palermo, 16 marzo 2018
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