UMBERTO SANTINO
I servizi sul ’ 68 palermitano apparsi su queste pagine sollecitano una
riflessione sui temi e sulle pratiche che caratterizzarono quell’anno e il
periodo che lo precede e si prolunga fino al 1977. Non è certo un segno
positivo che queste riflessioni, e ricostruzioni storiche, seguano il
calendario degli anniversari, di decennio in decennio. Ma è già qualcosa. Nel 1988, a vent’anni dal ’ 68, Franco Riccio, docente universitario di
filosofia, recentemente scomparso, organizzò un convegno i cui atti furono pubblicati
in un volume dal titolo “ L’ingranaggio inceppato. Il Sessantotto della
periferia”. In effetti il ’68 a Palermo è stato considerato marginale rispetto
ad altre città, ma bisogna dire che questo è dipeso dal risalto che la stampa
ha dato a quel che accadeva a Roma e a Milano e Paolo Mieli, allora tirocinante
a “ L’Espresso”, in un intervento sull’ultimo numero di “Micromega”, rileva il
ruolo che la stampa ha avuto nel mettere in vetrina soprattutto quelle città e
nel creare il mito di alcuni personaggi che operavano su quei palcoscenici.
Per cui il ’68 siciliano è conosciuto, solo o soprattutto, per il terremoto
nel Belice di gennaio e l’uccisione di due braccianti, Angelo Sigona e Giuseppe
Scibilia, ad Avola il 2 dicembre, che segnò la fine delle gabbie salariali.
Ulteriore conferma che per smuovere le cose, in Sicilia, ma non solo, ci
vogliono i morti. Ma se per ’68 si intende un repertorio di occupazioni di
scuole e facoltà universitarie, assemblee, controcorsi autogestiti,
manifestazioni, cioè quell’insieme di atti, gesti, riti collettivi , vissuti,
che vanno sotto quell’etichetta, si può dire che a Palermo è andato in scena un
copione che non differisce molto da quello che si recitava altrove. Il ’68 è
stato un evento globalizzante, che va dalla Francia al Messico, agli Stati
Uniti, alla Cecoslovacchia, alla Cina, all’insegna di una reale, o immaginaria,
volontà-possibilità di mutamento. E qui si pone il problema di una
interpretazione del ’68, dal ’68-pensiero, in cui convivono Marcuse e la Scuola
di Francoforte, l’antipsichiatria e Don Milani, al giudizio complessivo che si
configura come un mosaico affollato e contraddittorio. Il ’ 68 sarebbe stato,
contestualmente o alternativamente: un tentativo di sovversione
all’insegna di una contestazione globale, dalla politica ai modelli di
vita, a cominciare dalla sessualità; una crisi di civiltà, uno psicodramma
collettivo, il prodromo di un processo rivoluzionario, l’antecedente del
narcisismo dei decenni successivi; moderno e postmoderno per il suo immaginario
del desiderio e della comunicazione; rivoluzione fallita, un rovesciamento
simbolico del mondo. Nella mia relazione al convegno del 1988 proponevo l’uso
di una lente multifocale, capace di leggere nel ’68-mondo la contemporanea
presenza di eventi che intrecciavano lotta sociale, comunismo utopico e prologo
della modernizzazione ( Touraine) e nel ’ 68 italiano un momento di
congiunzione tra un processo di modernizzazione e l’apparizione di nuovi
movimenti antagonisti (Melucci).
Per Palermo, una buona guida, certo parziale e limitata all’area marxista o
marxisteggiante, sono i bollettini del circolo Labriola, incunaboli di quella
stagione, in cui la dotazione tecnica non andava al di là di quel trabiccolo
ansimante che era il ciclostile. In quei fogli ci sono le avvisaglie del
movimento studentesco, nelle scuole medie e all’Università, le riflessioni
sull’autonomia siciliana ma pure sul Vietnam, l’Unione sovietica e la Cina, sul
maggio francese, sull’occupazione militare di Praga; la critica cinematografica
( “ Le stagioni del nostro amore” di Vancini, “ I pugni in tasca” di
Bellocchio), recensioni di libri di Asor Rosa, Herbert Marcuse, Wilhelm Reich e
Paul Sweezy. In quel quadro, per nulla provinciale e periferico, si
svilupperanno le analisi sul Mezzogiorno e sulla mafia, allora, nonostante la
mattanza dei primi anni ’ 60 e l’attività, abbastanza deludente, della
Commissione antimafia, data per morta o quasi. Il ’ 68 palermitano fu in gran
parte egemonizzato da un gruppo strutturato, che coniugava eresie e
rivisitazioni, dal trotskismo ( con conferenze di Livio Maitan, una bella
figura di intellettuale e di militante) alla riscoperta critica del leninismo,
con un occhio al maoismo, e successivamente diede vita al circolo Lenin e poi
aderì al Manifesto, rimanendo un corpo estraneo, destinato alla scissione.
Ricordo un mio lunghissimo, estenuante, corso su Lenin, con l’interesse dei più
per il “ Che fare”, vangelo obbligato per la costruzione del “ partito
rivoluzionario”, e mio, e di pochi altri, per “ Stato e rivoluzione”, l’utopia
non realizzata dell’elisione dello Stato e la cuoca al potere. Un altro corso
fu sul Mezzogiorno e su Gramsci.
In quel periodo i tentativi di razionalità politica ( una teoria che si
tramuta in prassi, una strategia che orchestra la tattica) andarono a braccetto
con il settarismo dei vari gruppi nati nel corso degli anni ’ 70, con la corsa
alla testa dei cortei, come plastica rappresentazione di un’egemonia tanto
ostentata quanto immaginaria. L’analisi della mafia, contenuta in un documento
del novembre 1970, redatto dal dirigente indiscusso, Mario Mineo, sottolineava
la presa del potere a livello regionale, compresa la Sicilia orientale, negli
anni ’ 50, di una “ nuova borghesia capitalistico- mafiosa”.
Un’analisi, seguita dalla proposta di espropriazione della proprietà
mafiosa ( siamo nel 1971) che non trovò attenzione a livello nazionale ( al
Manifesto la tesi dominante era la “ maturità del comunismo” e il Mezzogiorno
non appariva abbastanza maturo per quella palingenesi), contrastata dai
compagni di Catania, che pensavano che i “ cavalieri” fossero imprenditori con
le carte in regola, schumpeteriani, e da quelli di Alcamo, storica riserva di
mafia, che pensavano che ormai si trattava di un residuo arcaico, destinato ad
essere cancellato dall’inarrestabile sviluppo capitalistico.
Dalle indicazioni di quel documento prenderà le mosse l’attività di ricerca
del Centro siciliano di documentazione, operante dal 1977 e successivamente
intitolato a Impastato. Quell’analisi, basata sulla complessità e sulla
centralità della borghesia mafiosa, per anni sarà considerata un infruttuoso,
se non fuorviante, cascame del veteromarxismo; oggi è un luogo comune,
rimasticato forse senza afferrarne il significato, spesso ignorandone la
paternità. Non posso non ricordare che in quel contesto il giovane Peppino
Impastato, prima studente alle medie e poi all’Università, trovava un habitat
politico- esistenziale che lo affrancherà dal destino, che appariva segnato, di
figlio di un mafioso e nipote di un capomafia.
La Repubblica Palermo, 9 febbraio 2018
Nessun commento:
Posta un commento