di SALVATORE SETTIS
Non abbiamo capito il messaggio dei giovani che nel 2016 al referendum
hanno votato in massa No: non erano contro Renzi ma a difesa dei diritti
garantiti ormai solo dalla Costituzione
“La vera catastrofe è lasciare che tutto continui come ora”. Questa profezia
di Walter Benjamin par fatta su misura per l’Italia di oggi. Ma anche di ieri.
Lo capirono bene gli elettori del 2013, regalando al M5S 8.691.406 voti e
facendone il primo partito d’Italia, e non perché avesse programmi di governo
credibili, bensì per una vaga ma forte speranza di novità.
E fu solo grazie al Porcellum che non i singoli partiti, ma le coalizioni
raccolte intorno al Pd e a Berlusconi raccattarono più seggi.
All’indomani di quelle elezioni, Barbara Spinelli lanciò su Repubblica (9
marzo) un appello a Beppe Grillo, Un patto per cambiare: se non ora, quando?;
un simile appello fu lanciato il giorno dopo sullo stesso giornale da Michele
Serra (Spinelli e io li firmammo entrambi). Chiedevamo che “la speranza di
cambiamento non venga travolta da interessi di partito, calcoli di vertice,
chiusure settarie, diffidenze, personalismi”. Chiedevamo di impedire le “larghe
intese” con Berlusconi che erano dietro l’angolo, formando un governo a termine
che affrontasse alcune urgenze, come il conflitto d’interessi e la legge
elettorale e lanciando nuovi “investimenti su territorio, energia, ricerca,
scuola pubblica”. L’esito di quegli appelli è noto: dal Pd non una sillaba, e
da Beppe Grillo sberleffi e facezie contro “gli intellettuali”. Così abbiamo avuto,
in compenso, larghe intese con Berlusconi e poi Alfano e Verdini, un aborto di
riforma costituzionale, due leggi elettorali nuove ma pessime, norme
fallimentari sulla scuola e il lavoro, un diluvio di parole e una sostanziale
stagnazione sull’orlo dell’abisso.
Cinque anni e tre governi dopo val la pena di ricordarsene, perché si fissò
allora la regola del gioco che ancora ci affligge: lo scontro fra due opposte
retoriche, entrambe con poco contenuto, il mito della stabilità e la bandiera
del rinnovamento. Sono cambiati gli schieramenti, si sono spostate le pedine
sulla scacchiera, ma il gioco è sempre quello, un perpetuo surplace che porta
il Paese allo sfinimento. Chi voleva stravolgere la Costituzione in nome della
stabilità, anzi ci aveva già provato (Berlusconi, Brunetta), ha strumentalmente
bocciato la riforma Renzi-Boschi, pronto a cucinarne domani un’altra assai
simile. Domina la scena un’eterna quadriglia di alleanze, in cui quel che
importa non è il futuro dell’Italia, non è l’analisi dei suoi problemi, non è
un progetto di governo, ma il gioco delle candidature e delle appartenenze, e
si recitano a giorni alterni le litanie della stabilità e del rinnovamento.
Purché non si entri nel merito, mai e poi mai. Pur avendo contribuito a questa
eterna situazione di stallo, Giorgio Napolitano lo ha detto lucidamente al
Corriere della Sera (28 gennaio): “I programmi che i partiti hanno delineato
sono in larga misura indeterminati e inattendibili”, senza “nessuna presa di
distanza da questa corsa demagogica che coinvolge un po’ tutti”.
La legge elettorale, col suo inossidabile principio di impedire agli
elettori la scelta dei parlamentari, è ormai alla sua terza edizione
consecutiva, in un braccio di ferro con la Consulta che è destinato a durare.
Questa legge è dunque lo strumento principale con cui la politica politicante
si gioca la pelle alla roulette russa del 4 marzo, puntando a ogni costo su un
Parlamento di nominati da eleggersi puntando a qualcosa che si scrive stabilità
e si legge stagnazione; che invoca il rinnovamento ma non sa dire di che cosa,
né per fare che cosa.
In assenza di progetti meditati e plausibili, si ricorre a promesse
improbabili, largizioni ed elemosine, dagli 80 euro alla flat tax,
dall’università sempre peggiore purché gratis alle mendaci promesse di lavoro.
In assenza di un traguardo, si invitano gli elettori a votare sempre e
comunque, per chicchessia, indipendentemente da quel che ognuno pensa e da quel
che i candidati sono disposti (o preparati) a fare. Perfino il momento più felice
della democrazia italiana da molto tempo a questa parte, l’afflusso di giovani
elettori al referendum sulla riforma costituzionale e la sua conseguente,
solenne bocciatura, viene svilito a spuntata arma retorica, sognando che esista
una sorta di “partito della Costituzione”, che voterebbe per questo o per
quello sulla base di liste bloccate, programmi fumosi, petizioni di principio,
slogan vuoti e bugiardi, ostentazioni di muscoli, lealtà di partito.
Ma fra quanti hanno votato per la Costituzione il 4 dicembre 2016 i più non
hanno “votato per votare”, e nemmeno in nome di uno schieramento eterogeneo, di
fatto una sorta di “larghe intese” anti-Renzi senza alcuna possibilità di
tenuta. Gli elettori più significativi di quel referendum, i giovani che la strategia
Renzi-Boschi immaginava si astenessero, decisero allora di votare non per fare
un favore a chi glielo chiedeva, né in cambio di promesse e chiacchiere.
Votarono No a quella riforma perché si convinsero che la Costituzione così
com’è tutela i loro diritti più e meglio della de-Costituzione cucinata in casa
Renzi-Boschi. Eppure, in nome ora di una presunta “stabilità”, ora di un
nebbioso “cambiamento”, la Costituzione viene delegittimata e ferita ogni
giorno. Lo ha detto con implacabile precisione il procuratore generale di
Palermo Roberto Scarpinato: “Le leggi ordinarie hanno in buona misura svuotato
di reali contenuti diritti costituzionali fondamentali come quello del lavoro.
Una decostituzionalizzazione strisciante funge da lasciapassare per politiche
economiche che determinano una crescita vertiginosa delle disuguaglianze
sociali e dell’ingiustizia. (…) Il tradimento delle promesse della Costituzione
determina la disaffezione di larghe componenti popolari non solo nei confronti
della politica ma anche nei confronti dello Stato”.
Di fronte a questa situazione di vera emergenza sarebbe necessaria la forte
riaffermazione dei principi costituzionali, ma anche la chiara indicazione
delle politiche di bilancio che ne assicurino la praticabilità. Ma nulla di
simile si è sinora visto in una campagna elettorale che si finge accesa, ed è
fiacca e inerte. È dunque certo che, se qualcosa di più serio non interviene di
qui a un mese (ed è improbabile), l’astensionismo tornerà ai livelli record
pre-referendum, e il Paese sarà ostaggio di uno scontro perenne fra una
“stabilità” e un “rinnovamento” accomunati da una desolante mancanza di
progetti e di idee. Questa e non altra è la vera catastrofe che ci attende: che
tutto continui come ora.
Da: Il Fatto Quotidiano, 31 gennaio 2018
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