Una stanza del Museo delle Spartenze di Villafrati |
MARTA OCCHIPINTI
A Villafrati una delle otto esposizioni che in Sicilia ricostruiscono le
fasi migratorie Vecchie e nuove fughe in cerca di fortuna
Un filo di lana di un gomitolo univa da un capo all’altro due vite prossime
alla separazione. Quando diviso dal mare, quel filo si spezzava, l’addio ai
propri cari diventava realtà, oltre che speranza che quella parte di tessuto
lacerata ritrovasse negli anni la sua metà.
Si usava così tra i migranti siciliani di fine Ottocento, quando il
distacco forzato dalla crisi agricola o dalla reazione di protesta per la
soppressione dei Fasci dei lavoratori portava a quella che Tommaso Bordonaro
definì la sua «dolorosa e straziande spartenza». Il distacco, cioè, dalla propria terra e dai propri affetti, ricuciti
spesso solo attraverso teneri ricordi fatti scorrere da una penna su un foglio
di carta.
«Ti abbraccio caremente», scriveva Ciro Bivona che alla sorella siciliana
mandava oltre ai baci «un elegante orologio a bracciale, un frigiatore e la
macchina di dischi con brano all’americano» per fare prova di «potere fare del
tutto a soddisfare a tutti». E c’era anche chi si scusava di «avere dimenticato
a mattere lo frangobullo» per rispondere a una lettera tanto aspettata e
scrivere ai propri figli di stare bene, «come spero di voi tutti».
Alle “spartenze” dei siciliani tra Otto e Novecento è dedicato il museo
dell’emigrazione di Villafrati. Un percorso di quattro sale espositive che
ricostruiscono le fasi della migrazione nell’Isola, dalle cause storiche della
partenza all’integrazione nelle nazioni ospitanti, con fotografie di Nino
Randazzo e Tony Gentile a testimonianza dei flussi migratori contemporanei nel
Mediterraneo.
Il museo ha sede nelle sale del settecentesco palazzo Filangieri, per più
di un secolo sede amministrativa dei feudatari conti di San Marco principi di
Mirto. È un viaggio nel silenzio, quasi di rispetto, quello che si apre al
visitatore, accolto all’ingresso dall’opera di Domenico Giammanco: una grande
scritta con lettere a rovescio create da fili di lana. Gli stessi del gomitolo
del distacco che si fa simbolo del museo.
A cosa servono, infatti, i frammenti umani se non a essere ricomposti in un
tutto unico? Valigie raccolte da donatori o acquistate ai mercati dell’usato di
Ballarò e piazza Marina riempiono le stanze del museo, alternandosi a strumenti
agricoli dell’epoca, registri della Capitaneria di porto di Palermo e manifesti
pubblicitari che incoraggiavano il grande sogno americano. Ci sono bauli,
documenti di visto, passaporti di famiglie che oggi si trovano disperse per il
mondo, alcune in America o in Australia, come quella dei fratelli D’Aleo,
partiti per New York alla fine dell’Ottocento, le cui fotografie campeggiano
dietro un elegante tavolo stile anni Venti per ricreare l’atmosfera dei social
club italiani nel mondo. C’era chi partiva per bisogno, sfidando con coraggio
lunghi viaggi oltreoceano rischiandola vita, come le tredici vittime di
Mezzojuso morte nel naufragio del piroscafo inglese Utopia, colato a picco a
largo di Gibilterra nel 1891. Ma c’era anche chi sognava il Nuovo Mondo,
appassionandosi tra le pagine del Calendario Atlante De Agostini.
«Affettivamente – scriveva al nipote un bracciante da “Noyorki” nel 1956 –
confronta la vista delle ochi a tutto questo traffico».
L’America era il simbolo della modernità e chi tornava in Sicilia portava
con sé nuovi ideali di cambiamento. Tra il milione di siciliani che si
imbarcano a Palermo, vi fu Ignazio Mercante, bracciante della colonia agricola
di Thibodaux in Louisiana dove nacquero i suoi dieci figli. Il quinto,
Salvatore, tornato in Sicilia fu registrato all’anagrafe come originario di
“Pipitò Aux” e nel secondo dopoguerra guidò i contadini nella lotta per la
riforma agraria, poi eletto sindaco meritandosi l’appellativo di “patri di
li puvureddi”.
È una Storia nelle storie. Accanto ai manifesti delle compagnie di
navigazione, come quella Florio, si fanno largo le numerose le lettere «dalla
lontana America»: pezzi di memorie talmente fitte da non bastare a volte
neppure un foglio, esaurito in tutti i suoi lati con scritte a rovescio per
ovviare alla mancanza di carta. E tra le lettere ci sono anche gli autografi
del bracciante di Bolognetta Tommaso Bordonaro, autore di un caso letterario
del Novecento, che ha fatto dell’autoscrittura uno strumento di emancipazione.
«Abbiamo messo in pratica una forma di Public history, modello americano di
studio per fare la storia fuori dalle accademie – afferma Santo Lombino,
direttore scientifico del museo – Abbiamo messo insieme la memoria delle
famiglie migranti del Novecento assieme al lavoro di reporter come Salvo La
Barbera o Tony Gentile, riunendo i fili della storia tra passato e presente».
Tra i progetti del museo c’è la realizzazione di una quinta sala dedicata
all’emigrazione italiana tra gli anni Sessanta e Settanta, con un’attenzione
particolare ai lavoratori stagionali che partirono per la Svizzera,
abbandonando i propri figli o portandoli di nascosto con sé. Furono i
cosiddetti “bambini invisibili”.
Come invisibili sono oggi i volti dei migranti dispersi in mare. Di loro
rimangono solo oggetti. Bussole, come quella ritrovata da Salvo La Barbera su
un barcone nel Canale di Sicilia.
La Repubblica, 3 febbraio 2018
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