La notte del
26 gennaio di quell’anno la passammo a casa della professoressa Oddo in via
XXIV Maggio, cugina dell’avvocato, ma soprattutto zia e madre di Dario, dopo la
prematura scomparsa della sua mamma. Fabrizia, arrivata precipitosamente da
Palermo, dove abitava in casa degli zii Tinè, in via Giovanni Bonanno, si
abbandonò sul divano; non riuscivamo a dirle nulla, eravamo rimasti attoniti e
stravolti dalla notizia; piangeva composta e guardava il lampadario, ma era
assente. Mi avvicinai a lei, la sua mano era gelida per il freddo, non ricordo
se aveva piovuto, ma c’era molto freddo.
Era già buio. Dario si agitava nervosamente e continuava a chiedersi il
perché di tanta efferatezza. In poco tempo la casa si riempì di amici e parenti,
ma anche di curiosi e giornalisti, che (come ricordato ieri) arrivarono da
Palermo.
Dario e Fabrizia Triolo |
Condivido appieno
l’analisi del prof. Lo Verso, esposta nell’interessante intervento di ieri,
quando ha sostenuto che le vittime di mafia non sono soltanto chi muore e i
loro familiari. Siamo anche noi vittime, in un certo senso. Eravamo giovani e
spensierati, trascorrevamo l’estate a Chiosi nella casa dei Ridulfo e a volte
anche a San Calogero nella splendida terrazza della casa dell’avvocato Triolo,
con una vista mozzafiato sulla valle che guarda
i paesi del
trapanese. Ascoltavamo musica e ballavamo i lenti con i dischi in vinile dei Pink Floyd, dei The Platters, di
Battisti,e Baglioni, che portava Giuseppe Ridulfo, chiamato da noi
affettuosamente “Picio” grande appassionato ed
esperto di musica ed organizzatore di indimenticabili serate al chiaro di
luna, con le immancabili spaghettate cucinate da sua madre nel pentolone di
rame, nella casa in contrada Pilastri. Io avevo ancora il Romeo 50 che le
ragazze chiamavano “Bombo”, mio fratello aveva il Morini
Corsaro 125,
comprato di seconda mano da Giovanni Alfieri, che nel frattempo era passato al
3/50. Dario, dopo aver distrutto il Gilera 50 Enduro, scorazzava con una 125 da
cross sempre attorniato dalle ragazzine, attratte dai suoi modi gentili e dai
riccioli neri che gli contornavano il capo. Indossava le prime lacoste colorate
e le college ai piedi. Fabrizia veniva soltanto nei mesi estivi e ai primi di
settembre rientrava a Palermo. Il pomeriggio si accompagnava spesso con le
cugine Teresa e Lucia Oddo. Lei era tutto il contrario di Dario; lui esuberante
e a volte spocchioso, ma sempre rispettoso e di buone maniere, lei schiva e
riservata: mai fuori tono, portava spesso jeans scuri e camice chiare che
esaltavano le Sue forme. La sera, quando si ballava in casa Ridulfo, veniva con
gonne lunghe colorate, con le scarpe di tela con il tacco di corda, come si
portavano allora. Eravamo felici, aspettavamo l’estate per incontrarci e qualche
volta ci vedevamo d’inverno anche a Palermo. L’estate del ’78, a causa del
triste avvenimento, non fu come le precedenti. La barbara uccisione dell’avvocato
aveva lacerato tutti, eravamo tutti pervasi di
malinconia,
non era più come prima, anzi, stava per finire tutto. Dario aveva perso lo
smalto e quell’irresistibile appeal che aveva fatto innamorare tante coetanee e
che molti di noi invidiavano. Fabrizia cominciò a venire sempre meno; a San
Calogero non c’era più il suo papà ad
aspettarla. Anche lei aveva perso la lucentezza e il sorriso, i suoi occhi
celesti come le albe di San Calogero non brillavano più. Negli anni che
seguirono tutto andò sempre più a scemare, sino a perderci completamente di
vista. Dopo circa 25 anni, con gioia, ho accolto nel mio ufficio, tra i miei
collaboratori, Dario appena assunto in Regione.
Riabbraccio
Fabrizia dopo 40 anni, frastornato dall’emozione e dal ricordo di quegli anni
spensierati e indimenticabili. Peccato, anzi mannaggia alla mafia e ai poteri
criminali che, oltre ad avere sconvolto intere famiglie, hanno distrutto gli
affetti più genuini e cari. Sono passati tanti anni, ma i sentimenti e le emozioni
che riaffiorano dal profondo dei nostri cuori non si sono cancellati, forse per
troppo tempo erano rimasti in oblio. Sarebbe bello trovare il modo per
continuare a ricordare il sacrificio dei nostri martiri, nella speranza che i
nostri figli possano vivere in un mondo più giusto e libero dalla mafia. Mi chiedo,
a volte, se abbiamo fatto abbastanza. Un abbraccio forte, carissimi Dario e Fabrizia.
Pietro Di
Miceli
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