SALVATORE
FERLITA
Nel “Gattopardo” il principe di Salina profetizza che sarà imbrogliato I personaggi
del “Quarantotto” di Sciascia lo definiscono un brigante Per Domina era “un
pupo sognatore e bizzarro”. Così si smonta un mito
Altro che
eroe acclamato dei due mondi: quando Giuseppe Garibaldi passa attraverso il
tritacarne impietoso della letteratura siciliana, non rimane nulla della
retorica risorgimentale. L’aureola patriottica svanisce d’un tratto per lasciare
posto alle corna. È quello che esattamente avviene nelle pagine del
“Gattopardo”, dove il principe Fabrizio, dinanzi al suo mondo in agonia,
all’impresa dei Mille, al plebiscito, all’avanzata sociale dei nuovi ceti
borghesi, continua a guardare le stelle dal suo osservatorio astronomico, o
prova a teorizzare il salvataggio della sua classe, recitando la celebre,
fatidica formula: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto
cambi”. Nel momento in cui qualcuno fa riferimento al generale, questa è la
reazione di don Fabrizio: «Il nome di Garibaldi lo turbò un poco.
Quell’avventuriero
tutto capelli e barba era un mazziniano puro.
Avrebbe
combinato dei guai. Ma se il Galantuomo lo ha fatto venire quaggiù vuol dire
che è sicuro di lui. Lo imbriglieranno». Per aggiungere subito dopo: «Si
rassicurò, si pettinò, si fece rimettere le scarpe e la redingote.
Cacciò il
giornale in un cassetto.
Era quasi
l’ora del Rosario, ma il salone era ancora vuoto. Sedette su un divano e,
mentre aspettava, notò come il Vulcano del soffitto rassomigliasse un po’ alle
litografie che aveva visto a Torino. Sorrise: – “Un cornuto”». Da parte
sua, Leonardo Sciascia non si dimostra certo meno impietoso: basti pensare al
racconto “Il Quarantotto”. A parlare è donna Concetta, la moglie del barone
Graziano, (pronto quest’ultimo, manco a dirlo, a passare dalla parte dei
garibaldini pur di non rinunciare ai suoi privilegi): «... il generale
Garibaldi? E chi è? Il barone diede in bestia: – Come?
Non sapete
chi è il generale Garibaldi? Quello sta mettendo il mondo sottosopra, da una
settimana non facciamo che parlare di lui, e voi venite a domandare chi è... E
da dove scendete, dalla luna? Donna Concettina si era ripresa, si rivolse al
genero e disse: – Ripetetemi quel che ha detto vostro suocero.
Il barone
bestemmiò, il genero disse: – Ha detto che sta per arrivare a Castro il
generale Garibaldi. – Io – disse donna Concettina – è la prima volta che sento
parlare di un generale Garibaldi; proprio stasera, prima di andare a letto, vostro
suocero mi fece sapere che c’era pericolo arrivasse a Castro un brigante di
nome Garibaldi: chiedetegli se per caso è avvenuto che sua maestà il re
Francesco ha nominato generale il brigante, mi pare sia avvenuto qualcosa di
simile una volta».
Cinque anni
“ Il Quarantotto”, Sciascia torna su Garibaldi, confezionando un altro racconto
pubblicato nel volume “ Cuore dei nostri tempi. Racconti per i ragazzi d’oggi”
(Della Volpe, Milano) e intitolato “ Il silenzio” ( ora in “ Il fuoco nel
mare”, Adelphi). Il generale, nelle pagine di Sciascia, affida un incarico
delicato al colonnello Vincenzo Giordano Orsini: raggiungere con i trentadue
carri, i pezzi di artiglieria e i feriti il comune di Giuliana, al fine di
reclutare uomini e fortificare il luogo. La colonna comincia a muoversi,
preceduta da «due uomini vestiti di nero, neri di faccia e di barba, neri di
silenzio: campieri di un feudo della zona, persone di fiducia di un barone,
rispettate e temute per la loro violenza » . La campagna intorno comincia a svegliarsi,
i contadini sbucano fuori dalle masserie e rimangono zitti e immobili dinnanzi
alla colonna che sfila: «La presenza di quei due era per loro consegna di
silenzio. Non c’era bisogno di una esplicita raccomandazione: quei due uomini
neri spargevano, ovunque passassero, il silenzio. Erano come invisibili,
rendevano invisibile tutto ciò che accompagnavano e proteggevano » . Insomma, i
due diventano il correlativo oggettivo dell’omertà.
Nel 1965,
quasi allo scadere dell’anno, Sciascia scrive una nota per il quotidiano “
L’Ora”, destinata alla sua rubrica, “ Quaderno”: si intitola “Uno che dice male
di Garibaldi”. Lo scrittore di Racalmuto parla del desiderio finalmente
appagato di leggere il libro di padre Giuseppe Buttà “Da Boccadifalco a Gaeta”:
« E dopo aver letto le ottocento pagine del suo libro, debbo confessare che
questo padre Buttà mi piace. Non per la causa, peraltro anche allora
irrimediabilmente non giusta e persa per di più, ma per l’ardore e il
coraggio con cui la difende. Nel 1875, nell’Italia unita, nell’Italia che ha
già i suoi intoccabili miti dell’unità, padre Buttà ha il coraggio di dire male
di Garibaldi, di smontarne il mito » . Ma già prima di Tomasi e di Sciascia gli
scrittori siciliani avevano “ detto male” del patriota e generale, demitizzando
amaramente la saga risorgimentale: Giovanni Verga, ad esempio, con la novella “
Libertà”; Luigi Pirandello con “ I vecchi e i giovani” e le sue novelle poco o
niente patriottiche (“ Sole e ombra”, “ Le medaglie”, “ Il guardaroba dell’eloquenza”),
Vincenzo Consolo con “Il sorriso dell’ignoto marinaio”.
A questo
albero genealogico della letteratura siciliana antirisorgimentale appartengono
pure Umberto Domina e Andrea Camilleri. Il primo, nel suo romanzo umoristico “
Garibaldi ore 21”, rappresenta il generale alla stregua di «un pupo sognatore e
bizzarro che realizza quanto di garibaldino c’è in ciascuno di noi», «un Eroe
dei due Mondi: del mondo della fantasia e dell’altro: di quello che i
pessimisti definiscono “porco mondo”».
Camilleri ne
“ Lo stivale di Garibaldi” narra del prefetto Falconcini, “ uomo del Nord”
inviato come funzionario ad Agrigento due anni dopo l’impresa dei Mille. Egli
si rende conto che degli ideali del patriottismo risorgimentale non resta altro
che la feticistica venerazione di uno stivale di Garibaldi, considerato al pari
di un cimelio.
La Repubblica Palermo, 18 gennaio 2018
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