La d.ssa Giovanna Termini ricorda Ugo Triolo e Mario Francese |
CORLEONE, 26 GENNAIO 2018. C'era lo Stato italiano in tutte le sue articolazioni venerdì scorso alla manifestazione per ricordare il vicepretore avv. Ugo Triolo e il giornalista Mario Francese, assassinati dalla mafia “corleonese” il 26 gennaio 1978 il primo e il 26 gennaio 1979 il secondo. Per l'occasione la Commissione straordinaria del comune di Corleone ha voluto intitolare ad Triolo l’Auditorium dell’ex chiesa di S. Andrea. (GUARDA L'ALBUM FOTOGRAFICO)
La pagina de "La Sicilia" del 20.01.2008 dedicata a Triolo |
LA MORTE DI UN UOMO PERBENE
DINO
PATERNOSTRO
Era un freddo
pomeriggio d’inverno. A Corleone, l’avvocato Ugo Triolo «aveva da qualche
minuto comprato due pacchetti di sigarette nel centrale tabaccaio di piazza
Garibaldi», avrebbe scritto un giornalista di razza come Mario Francese sul
“Giornale di Sicilia” del giorno dopo. «Con al guinzaglio il suo affezionato
barboncino nero – proseguiva l’articolo - il professionista, da circa quindici
anni vicepretore onorario di Prizzi, ma nato e residente a Corleone, si era
avviato lentamente per la via Roma, una strada in salita dove sono ubicati la
pretura e il magistrale. Trecento metri percorsi spensieratamente fumando e
giocando col suo Bull.
Quindi, piazza San Domenico e poi il vicolo Triolo,
coperto da un tetto ad arco che sbocca in via Cammarata. Proprio uscendo dal
vicolo, al numero 49 di via Cammarata, è la casa dell’avvocato Triolo (…). Il
professionista ha avuto il tempo di premere sul bottone del citofono. Ha
risposto la moglie. Quindi, all’angolo della strada, a non più di due metri e
mezzo, dove si apre la via Rua del Piano (in cui abita il luogotenente di
Luciano Liggio, il latitante Totò Riina) qualcuno l’ha chiamato. “Ugo, Ugo…”.
Il professionista si è voltato , avrà visto qualcuno dinnanzi a lui con una
pistola in pugno. Ha avuto il tempo di alzare le mani, come per proteggersi il
viso. In quel momento un lugubre rosario di colpi…». Furono nove i colpi di P38
sparati contro l’avvocato Triolo. Solo due andarono a vuoto, gli altri sette lo
colpirono al petto e alla testa, uccidendolo. Erano le 17.40 del 26 gennaio
1978. Quando la moglie, col cuore in gola, aprì il portone di casa, il suo corpo
rantolante quasi le cadde addosso, facendola urlare dal dolore.
Chi poteva
avere interesse ad assassinare – e per giunta in maniera così plateale, con
nove colpi di pistola sparatigli in faccia - una persona perbene come
l’avvocato Ugo Triolo? Uno che, secondo un altro giornalista di razza come Pippo
Fava, «non aveva mai avuto a che fare con interessi criminali, se non per
doveri del suo ufficio». Un aiuto per rispondere a questi interrogativi lo
diedero i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che, nell’ordinanza
sentenza del maxi-processo, trascrissero la dichiarazione di un collaboratore
di giustizia ante-litteram, Giuseppe Di Cristina. «Riina Salvatore e Provenzano
Bernardo, soprannominati per la loro ferocia “le belve” – dettò a verbale il
“pentito” - sono gli elementi più pericolosi di cui dispone Luciano Liggio.
Essi, responsabili ciascuno di non meno di quaranta omicidi, sono gli assassini
del vice-pretore onorario di Prizzi». A questa si aggiunsero anche le
dichiarazioni dei pentiti Francesco Di Carlo e Giovanni Brusca, che indicarono
in Riina e Provenzano i mandanti dell’omicidio e in Leoluca Bagarella, Antonino
Marchese e Giovanni Vallone il “gruppo di fuoco” che gli tese l’agguato la sera
del 26 gennaio 1978. Un delitto, dunque, voluto direttamente dalla “cupola” di
Cosa Nostra, saldamente in pugno ai “corleonesi” Riina e Provenzano ed eseguito
dai killer più feroci di cui disponevano, in primo luogo quel “Luchino”
Bagarella, che di Riina era il cognato. Furono fatte tante ipotesi, ma nessuna
è stata mai provata. Si disse, per esempio, che l’avvocato era proprietario di un vasto appezzamento di
terra in contrada “San Calogero”, che interessava i mafiosi, ma che lui non
voleva assolutamente vendere. Il pentito Di Carlo, invece, ha svelato che negli
uffici di una società di trasporti di via Leonardo da Vinci a Palermo, un certo
Vallone di Prizzi «chiese a Bernardo Provenzano di eliminare Triolo, perché lo
aveva ostacolato in alcune vicende collegate a reati edilizi, da lui valutati
nella veste di vice pretore (…). Lui è avvocato, dovrebbe fare quello che dice
il paesano e no quello che dice la legge». L' avvocato Triolo – è un’altra
ipotesi - fu ucciso 12 giorni dopo Marco Puccio, un suo cliente accusato di abigeato.
Forse, è un' ipotesi degli inquirenti, la vittima si era confidata con il
legale? Infine, si disse pure che Triolo aveva svolto con “troppo zelo” il
ruolo di pubblico ministero in un processo minore contro Luciano Liggio. Comunque,
per oltre vent’anni di Ugo Triolo a Corleone nessuno parlò più. E non c’era
nemmeno la certezza che fosse una vittima innocente di mafia.
«Quella sera
del 26 gennaio non la dimenticherò mai…», dice il figlio Dario, che allora
aveva 18 anni. E aggiunge: «Mi trovavo dalla zia, in piazza San Domenico, e
aspettavo che, come ogni sera, passasse mio padre per andare a casa. Ma non lo
vidi passare. Sentii invece dei colpi di pistola e mi precipitai fuori. Corsi
verso casa e vidi mio padre insanguinato per terra, che ormai non respirava
più…». Un’esperienza traumatica, di quelle che lasciano il segno. «In questi
trent’anni – aggiunge Dario – non sono ancora riuscito a capire perché hanno
ucciso mio padre, perchè sono stato privato di una figura per me così
importante…». Quella sera del 26 gennaio di trent’anni fa, attorno al corpo
senza vita dell’avvocato Triolo, oltre a Mario Francese, che sarebbe stato
assassinato esattamente un anno dopo, c’era anche un altro cronista d’eccezione:
Pippo Fava. «Era ancora notte – scrisse fava - e, al centro del paese, c’era un
anziano signore calvo, molto distinto, riverso dinanzi al suo studio di
avvocato. Nove revolverate lo avevano colpito al petto e alla testa mentre
stava infilando la chiave nella toppa. Il morto si chiamava Ugo Triolo, aveva
58 anni, era procuratore legale di buona stima nel territorio, aveva la carica
di vicepretore a Prizzi… non aveva mai avuto a che fare con interessi
criminali, se non per doveri del suo ufficio».
Allora, le
accuse dei pentiti non bastarono per imbastire un processo. I magistrati di
Caltanissetta hanno scavato nel passato, alla ricerca di un movente, hanno
ripreso in mano anche gli articoli di Mario Francese, il cronista del
"Giornale di Sicilia" che fu ucciso esattamente un anno dopo Triolo,
il 26 gennaio '79. Le sentenze hanno condannato Riina e Provenzano per l'omicidio
del giornalista. I carabinieri non hanno smesso di cercare. Gli avvocati dell'amministrazione
comunale, Mario Milone e Carmelo Franco, hanno seguito passo passo le nuove
indagini. Allora valutarono anche la circostanza che l'avvocato Triolo fu
ucciso pochi giorni dopo Marco Puccio, inteso “Mercurifava”, un suo cliente
accusato di abigeato. Valutarono l'ipotesi degli inquirenti secondo cui la
vittima si possa essere confidata con il legale, facendo preoccupare i mafiosi.
Potrebbe essere stato una sorta di “delitto preventivo”, insomma. Ma non
c’erano riscontri. Ogni testimone sentito in questi vent' anni dai giudici ha
parlato della "determinazione" del vicepretore «nel mantenere le sue
posizioni». Triolo, scrisse il gip di Caltanissetta, era «una personalità dotata
di un prestigio autonomo e non direttamente controllabile dalla criminalità
locale». Finalmente, dal 2003, grazie alle nuove indagini della Procura di
Caltanissetta, si ha la certezza che Triolo fu una vittima innocente di mafia. Nel
2000, l’allora sindaco Pippo Cipriani gli dedicò una strada a Corleone, nel
corso di una manifestazione a cui partecipò anche l’on. Giuseppe Lumia,
presidente della Commissione antimafia. Fu un momento importante, che riaccese
i riflettori su un caso dimenticato. In quell’occasione Cipriani auspicò che
«Corleone possa chiedere verità e giustizia anche per tutte le altre vittime
innocenti, di cui non si parla più». E, seppur a distanza di anni, un po’ di
giustizia per l’avvocato Triolo è stata fatta: il figlio Dario è stato assunto
alla Regione come familiare di una vittima innocente di mafia.
Nel 2000, dopo
anni di silenzio, a chiedere alla magistratura di tornare ad indagare su quel
delitto fu l’allora sindaco Pippo Cipriani. Le indagini ripresero e finalmente,
nel 2003, arrivò una prima risposta: «l'avvocato Ugo Triolo – scrisse Salvo
Palazzolo su “La Repubblica ” del 25 settembre 2003 -non è più un morto di
nessuno, è una vittima della mafia, secondo il gip di Caltanissetta
Giovanbattista Tona. Il provvedimento firmato dal magistrato è di archiviazione
per i presunti killer e i mandanti, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca
Bagarella, Antonino Marchese e Giovanni Vallone: le dichiarazioni dei pentiti
Francesco Di Carlo e Giovanni Brusca non sono bastate. Ma è un' archiviazione
che questa volta vale tanto. «Restituisce a Corleone un pezzo della sua storia
- dichiarò l'ex sindaco Cipriani - e soprattutto ridà giustizia a un uomo e
alla sua famiglia». «Il vice pretore onorario viene eliminato - scrisse il
giudice Tona nel suo provvedimento - nel periodo in cui più sfrenata e
arrogante si era fatta la violenza dei "liggiani" per affermare la
supremazia sul territorio». Triolo aveva la colpa di essere una persona
perbene. «Era di un certo prestigio a Corleone – scrisse ancora il gip di
Caltanissetta, illustrando le sue conclusioni - era un proprietario terriero,
apparteneva ad una famiglia di grossi possidenti e di professionisti, svolgeva
il ruolo di magistrato onorario e come avvocato poteva essere nel paese il
destinatario di richieste di consigli, anche non solo legali». «Le indagini –
concludeva Palazzolo - non hanno accertato con esattezza il movente del
delitto. Hanno però chiarito che Triolo non intendeva sottostare ad alcun
ricatto. Soprattutto quelli degli uomini di Liggio, che dopo aver fatto fuori
la cosca di Michele Navarra, erano i nuovi padroni». «Sono orgoglioso della figura
di mio padre – dice ancora il figlio Dario – e mi auguro che mio figlio
(ovviamente, si chiama Ugo come il nonno – ndr) lo pensi sempre come un esempio
di dirittura morale. Solo pensandolo così in questi anni sono riuscito a
riempire un po’ il vuoto che mi ha lasciato la sua assenza…».
La Sicilia, 20
gennaio 2008
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