Nicola Scafidi - Comune di Santa Margherita del Belice |
Vicende e
visioni. Fondazione
Sant’Elia | PALERMO. 28 gennaio > 14 marzo 2018Alle 16.48, ci fu la terza scossa: si
sbriciolarono i muri di Gibellina, Menfi, Montevago, Partanna, Poggioreale,
Salaparuta, Salemi, Santa Margherita e Santa Ninfa. Nella notte, alle 2.33,
un’altra scossa molto violenta si avvertì fino a Pantelleria. Ma quella
devastante, definitiva, fu alle 3.01: il Belìce non esisteva più, i
soccorritori si trovarono dinanzi – quando riuscirono a raggiungere la valle
percorrendo strade distrutte – un paesaggio lunare, paradossale, senza vita. Il
terremoto che squassò il Belìce, nel cuore del Trapanese, cinquant’anni fa
– nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 morirono quasi 300
persone, 1000 furono i feriti e 70 mila gli sfollati - rase al suolo
paesi abitati soprattutto da vecchi, donne e bambini, visto che gli uomini
erano emigrati in cerca di lavoro. E portò alla luce una realtà sconosciuta,
quella della Sicilia rurale e arretrata che lo Stato aveva dimenticato. Il
terremoto del Belìce fu il primo grande “caso” del dopoguerra che mise a nudo
l’impreparazione dei soccorritori, l’inerzia dello Stato, lo squallore dei
luoghi dove ancora, nel 1976, 47 mila persone vivevano nelle baracche. Le
ultime 250 furono distrutte nel 2006.
Nell’anno del
cinquantenario, la mostra “PAUSA SISMICA. 1968/2018 Cinquant’anni dal
terremoto del Belìce. Vicende e visioni” – che la Fondazione
Sant’Elia, a Palermo, ospita dal 28 gennaio al 14 marzo, nell'ambito di PALERMO
CAPITALE ITALIANA DELLA CULTURA 2018.
Inaugurazione:
27 gennaio, alle 17.30 - ripercorre la storia di Gibellina, dal terremoto che la rase al
suolo, alla costruzione della città nuova, rifondata sul sogno del suo sindaco
Ludovico Corrao, fermamente convinto che soltanto attraverso l’arte si potesse
pensare alla rinascita. Gibellina, dunque, come un museo a cielo aperto: che
parte dalle foto del sisma e arriva alle opere di oggi, avviando un percorso a
più voci sul dialogo, le migrazioni, il confronto, attraverso l’inedita
installazione di Mustafa Sabbagh, “http 502: bad gateway, 2017”; Susan
Kleinberg, Claudio Beorchia, Adrian Paci e Daesung Lee. In mostra per la
prima volta anche “Pausa sismica”, installazione realizzata dal duo
svedeseBigert&Bergstrom nel 1992 per la mostra "Paesaggio
con rovine" a cura di Achille Bonito Oliva; il cartello fu collocato
all’ingresso della città dove è rimasto fino ai primi anni Duemila. La
Fondazione Orestiadi ha deciso di realizzarlo di nuovo per questa mostra – che
da qui prende il titolo -; alla fine dell’esposizione, l’opera
ritornerà nel luogo per il quale lo hanno pensato Lars Bergström e Mars Bigert.
A raccontare la
storia di Gibellina e del Belìce saranno subito le fotografie, i video, i
materiali documentari raccolti durante un lungo lavoro di ricerca tra diverse
istituzioni che qui compongono la trama di una memoria viva. La rinascita passa
invece dalle opere degli artisti, radicate nell’identità di Gibellina Nuova.
Cinquant’anni
densi di avvenimenti, per una storia che attraversa i cambiamenti sociali che
proprio dalla Valle del Belìce, in quel periodo, stavano nascendo dal basso,
diventandone parte integrante.
La mostra -
curata dalla Fondazione Orestiadi e coprodotta dalla Fondazione
Sant’Elia, in collaborazione con il Comune di Gibellina -
va avanti per temi e sezioni che, nel loro intrecciarsi, restituiscono la
complessità dell’accaduto. Si parte dalla notte del terremoto, tra il 14 e il
15 gennaio 1968: gli scatti dei fotografi - Enzo Brai, Nino Giaramidaro,
Melo Minnella, Nicola Scafidi - che si precipitarono nella Valle,
arrivando con mezzi di fortuna pur di raccontare i fatti; i primi documenti
video provenienti dalle Teche RAI, il primo telegiornale che
annunciò il terremoto al mondo. Dagli archivi del Giornale di Sicilia,
un video viaggia attraverso le pagine storiche del quotidiano, i racconti degli
inviati tra le macerie, raccoglie le voci di chi si ritrovò senza nulla. Poi il
periodo nelle baracche: tredici lunghissimi anni di permanenza prima del trasferimento
nella città nuova. Tra i documenti, anche quattro foto di Letizia
Battaglia che raggiunse la baraccopoli nei primissimi anni Settanta.
Alla ricostruzione e a Gibellina Nuova è poi dedicata un’intera sezione della
mostra che esplora l’urbanistica, le architetture, le sculture attraverso le
fotografie (di Roberto Collovà, Andrea Jemolo e Sandro Scalia) e i modelli
delle opere realizzate: furono in tantissimi gli artisti accorsi a Gibellina
raccogliendo l’appello di Ludovico Corrao nel 1970. Ognuno lasciò
un’impronta, secondo il suo stile. Esposti il modello per Il Sistema delle
Piazze di Franco Purini e Laura Thermes, quello del teatro mai
completato di Pietro Consagra con il vicino Meeting. La
modernissima Chiesa di Ludovico Quaroni e Luisa Aversa, il
modello del Cretto di Burri. E le sculture disseminate per la città, vero museo
a cielo aperto: il modello per La Porta del Belice (la famosa Stella) di Pietro
Consagra, “Contrappunto” (1984) di Fausto Melotti, “Tracce
antropomorfe” di Nanda Vigo.
Contemporaneamente alla città, Gibellina ricostruiva anche la sua
comunità, per la quale un ruolo fondamentale ha svolto il teatro. Momento di
rifondazione di valori, ma anche strumento pratico di aggregazione dei saperi
degli artigiani per la produzione di scenografie, costumi e opere d’arte. Dal
costante dialogo tra gli uomini dei luoghi e i numerosi artisti italiani e
stranieri che a Gibellina hanno trascorso lunghi periodi di creazione, nacquero
i “Prisenti” portati in processione durante la festa di San Rocco e
ricamati dalle donne di Gibellina. Ma anche le sculture, le spettacolari
scenografie di Arnaldo Pomodoro, Mimmo Paladino, Pietro Consagra per
alcuni spettacoli rimasti come segni della Storia, a partire dalla scenografia
del primo spettacolo delle Orestiadi, “Gibella del martirio” di Emilio Isgrò; e
le testimonianze degli atelier di tanti artisti che hanno marcato il Novecento,
da Schifano, a Rotella, Scialoja, Angeli.
A fare da
contraltare alla vita della città nuova, è stato il sudario di
Alberto Burri sulle rovine di Gibellina vecchia: quel Cretto che è un progetto
unico al mondo ancora oggi depositario di un valore artistico, etico,
comunitario che si rinnova ogni giorno.
Vero cuore della
Gibellina fucina d’arte, è il Museo delle Trame Mediterranee: viene raccontato
da un’installazione realizzata da Antonio De Luca e Stalker per la mostra
itinerante “L’Islam in Sicilia”, che
ha portato il messaggio della Fondazione Orestiadi - l’arte come
messaggera di pace - in tutte le grandi capitali del mondo arabo. La
biblioteca siculo-araba di Antonio De Luca e Stalker è un
viaggio immersivo nella luce: 30 lastre di cristallo che descrivono le città
siciliane come furono viste da Idrisi: illuminate con luce wood, creano
uno spazio fantastico dove le pagine di cristallo sembrano volare.
Al dialogo – o
non dialogo – tra i popoli del Mediterraneo, hanno lavorato gli artisti
dell’oggi, dell’urgenza: così l’installazione audio/video inedita diMustafa
Sabbagh, “http 502: bad gateway, 2017”, trova un punto di incontro
tra le migrazioni e la Valle del Belice distrutta. Sulla stessa scia si muovono
anche Susan Kleinberg, con “Tierra sin males” (2011)
e Claudio Beorchia, “Stato di emergenza”, 2016,
installazione che parte dalla coperta termica offerta ai migranti al loro
arrivo sulle coste italiane. Sul tema delle migrazioni ha lavorato anche Adrian
Paci – “ Home to go” (2001), mentre le immagini di Daesung Lee,
“On the shore of a vanishing Island” (2011), già presentate alla prima
edizione del “Gibellina Photoroad”, fanno riflettere sui cambiamenti climatici
in atto nel pianeta.
Tutte le sezioni
sono accompagnate dai testi dei grandi poeti che in questi decenni hanno
testimoniato con la loro presenza la vicinanza alla gente di Gibellina e che
della cittadina siciliana hanno fatto un loro luogo di elezione, come Adonis,
Ignazio Buttitta, Jolanda Insana, Emilio Isgrò, Sa’adi Yusuf.
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