Il boss corleonese Rosario Lo Bue |
di Giovanni Bianconi
Le reazioni alla notizia nei peniteziari. E alcuni
detenuti non hanno ritirato il vitto.
Il boss Vittorio Tutino, ancora fresco di ergastolo
per la strage di via D’Amelio nel quarto processo Borsellino, s’è vestito a
lutto, «con abiti di colore nero e scarpe nere». Come lui il corleonese Rosario
Lo Bue, recentemente condannato a 15 anni di galera; suo fratello Calogero fu
il «vivandiere» arrestato con Bernardo Provenzano. Il giorno dopo la morte di
Totò Rina, hanno voluto dimostrare così il cordoglio per la dipartita del «capo
dei capi» di Cosa nostra. Un segno di rispetto che, in forme diverse, s’è
esteso a molti altri detenuti, nelle sezioni speciali del «41 bis», riservate a
capi e gregari di mafia, camorra e ‘ndrangheta.
Gli agenti del Gruppo operativo mobile della polizia
penitenziaria hanno
osservato con attenzione le loro reazioni, riversate in appunti che la
Direzione dell’amministrazione penitenziaria ha trasmesso alla Procura di
Palermo. Per verificare se, anche da questi piccoli indizi, si potessero
cogliere eventuali segnali della «formazione di una nuova leadership» dentro
Cosa nostra.
Nel carcere de L’Aquila, dove si sono chiusi Tutino e
Lo Bue, quando
morì il padrino — un mese fa — era in corso una protesta con la «battitura»
della sbarre tre volte al giorno, alle ore dei pasti. Ma il giorno in cui
arrivò la notizia, la protesta fu sospesa, per rispetto. Inoltre i detenuti
della «sezione rossa» non hanno ritirato il vitto passato dall’amministrazione,
consumando ciascuno nella propria cella il cibo che avevano a disposizione.
All’apertura dei cancelli blindati, alle 7 del mattino, normalmente i boss a si
augurano il «buongiorno», ma il 17 novembre non si sono salutati affatto.
La stessa cosa ha fatto, a Novara, Tommaso Lo Presti, considerato il «reggente» della
famiglia mafiosa palermitana di Porta Nuova, rimasto muto anche all’ora di pranzo
e la sera, quando solitamente — secondo un rito che al «41 bis» aiuta a
scandire il tempo che passa — ci si scambia il «buon appetito» e «buona sera».
Sempre a Novara un altro capo di rilievo, Vito Vitale da Partinico, già alleato
dei corleonesi, al risveglio ha acceso la televisione e, appreso che Riina era
morto, l’ha spenta e non l’ha più voluta vedere per tutta la giornata: «Tipico
gesto di lutto familiare nelle regioni meridionali», hanno annotato gli agenti
del Gom.
Nello stesso penitenziario, invece, altri reclusi di
altra generazione, non hanno
mostrato alcuna reazione. Per esempio Giuseppe Biondino, nipote diretto di
Salvatore, l’autista di Riina che il 15 gennaio 1993 fu arrestato insieme al
«capo dei capi»; il 17 novembre ha avuto un comportamento uguale a tutti gli
altri giorni, «manifestando la diversità carismatica di attaccamento alle
regole associative di Cosa nostra». Al pari di Alessandro D’Ambrosio, della
famiglia di Porta nuova, che ha salutato i compagni di sezione «come se nulla
fosse».
Non sono state segnalate reazioni particolari di
Leoluca Bagarella, il cognato
di Riina rinchiuso a Sassari, e del figlio maggiore Giovanni, anche lui
ergastolano al «carcere duro». Così come tutte le relazioni arrivate dai
reparti di Rebibbia, a Roma, riferiscono che «nessun commento» è stato
pronunciato dai detenuti. Con l’eccezione del dialogo tra Gaetano Maranzano,
boss del quartiere palermitano Cruillas, e l’imprenditore accusato di camorra
Antonio Simeoli. Il quale alla distribuzione del vitto ha detto al siciliano:
«Condoglianze Gaetà». «Ma di che cosa?», ha risposto quello. «È morto, l’ho
sentito al telegiornale». «Ma chi, u curtu? Non l’avevo sentito», e ha riso,
mostrando scarso interesse.
Tornando a L’Aquila, ma nel reparto femminile, il colloquio ascoltato tra la
camorrista Teresa De Luca e la ‘ndranghetista Aurora Spanò, ha avito toni
esilaranti. «Stamattina ho avuto un brutto risveglio, è morto lo zio», ha detto
la prima. E l’altra: «Ti è morto lo zio e non dici niente?». «Ma sei scema? L’ho
saputo stamattina». «E come hai fatto se la posta arriva al pomeriggio?».
«Madonna mia Aurò, non capisci niente. Non mi parlare che mi fai salire i
nervi». Un’altra detenuta calabrese, invece, Teresa Gallico, se l’è presa col
permesso concesso ai parenti di Riina di stargli accanto nelle ultime ore di
vita, «mentre a lei e ai suoi tre fratelli, quando morì suo padre, era stato
negato»; la napoletana Raffaella D’Alterio «non ha fatto altro che dare ragione
alla propria compagna».
Corriere della sera, 16 dicembre 2017 | 20:42
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