GIULIANO FOSCHINI
Un’inchiesta durata due anni svela la grande truffa
nascosta nei tubetti di concentrato
Quando spremete una confezione di ketchup olandese, il migliore sul
mercato. Quando rovesciate un sugo conservato sulla vostra pasta. Se aprite un
barattolo di pelati. In tutti questi casi è bene avere un paio di immagini ben
chiare in testa: un pomodoro duro come una roccia raccolto da bambini cinesi.
Un chimico orientale davanti a un tavolo pieno di additivi e coloranti. Una
salsa nera, conservata in un lercio magazzino ghanese. Qualche decina di
ragazzi e ragazze romeni, bulgari, africani che chinati su se stessi tirano su
centinaia di cassette di legno e pochi centesimi di euro ogni ora.
Bene, avendo quelle immagini ben chiare in testa si può cominciare a
leggere “Rosso marcio” ( Edizioni Piemme), “ una sconvolgente inchiesta
internazionale sul pomodoro che finisce nel tuo piatto”, dice il sottotitolo
senza alcuna esagerazione, perché il lavoro di Jean Baptist Malet, trentenne
giornalista francese, che negli ultimi due anni ha inseguito pomodori
dalla Cina all’Italia, passando per l’Africa e gli Usa, racconta con chiarezza
tutti i lati oscuri di un business da dieci miliardi di euro l’anno.
Che sappiamo per esempio di quel concentrato di pomodoro che riempie le
tavole di tutto il mondo? Per capirci qualcosa è necessario partire dalla
Cina, il primo esportatore al mondo di concentrato industriale. Di pomodoro, a
parte il rosso, lì dentro non c’è nulla. «La buccia di un pomodoro da industria
— scrive Malet — è molto spessa, resiste e scrocchia sotto i denti quando si
cerca di masticarla fresca. Il frutto è così duro perché può sopportare
lunghi viaggi in camion e sbattimenti da macchinari. Non si rovina: è studiato
per questo».
È da qui che gli stabilimenti cinesi tirano fuori il concentrato che
esportano in barili in tutto il mondo. E tantissimo in Italia. Dove, racconta
Malet, spesso « viene riconfezionato da operai e macchine in scatolette
“prodotte in Italia”». Significa che il pomodoro italiano, spesso, in realtà è
cinese. In un mese al porto di Salerno, hub di tutte le aziende di
trasformazioni campane leader nel mondo, arrivano fino a 10mila tonnellate di
concentrato dalla Cina. Prodotto che, in alcuni casi, viene “ ritrasformato” e
mischiato con gli scarti del pomodoro raccolto in Italia e inviato sulle tavole
di mezzo mondo.
L’Italia resta la seconda produttrice al mondo di pomodori ( 5,1 milioni di
tonnellate come la Cina, la metà della California) e realizza il 77 per cento
delle esportazioni mondiali di conserve. « Conserve — scrive Malet — che sono
diventate loro malgrado l’emblema del caporalato ». Il rosso del pomodoro, si
sa, spesso è quello del sangue di ragazzi e ragazze, schiavi, costretti in
Italia a lavorare per le multinazionali per pochi euro all’oro.
Sono bulgari, romeni. Quasi sempre africani. Ed è proprio l’Africa il nuovo
mercato delle multinazionali. Leader è il marchio Gino: dal Mali al Gabon,
dalla Liberia al Sudafrica, Gino è ovunque, consumato da centinaia di migliaia
persone al mondo. Eppure Gino, al di là del packaging, di italiano non ha
nulla: il concentrato mischia prodotti dello Xinjiang e della Mongolia interna
e il proprietario del marchio è indiano: Wantamal.
Da qualche tempo, scrive Malet, il pomodoro ha cominciato a fare anche il
giro inverso: dall’Africa all’Italia. La Cina ha delocalizzato la produzione
per esempio in Ghana. « Ho trovato barili che hanno seguito il percorso
abituale — racconta Malet — trasformazione e stoccaggio nello Xinjiang,
trasporto in treno attraverso la Cina, traversata oceanica nei container e
infine scarico qui, a Tema, in Ghana. I barili sono ricoperti di sporcizia,
ammassati all’aria aperta. Molti non hanno più il coperchio e appaiono corrosi.
Il loro stato pietoso mi incuriosisce. Mi avvicino, picchietto una sacca
asettica. È piena. Forza, avanti. Tuffo la mano a caso dentro una sacca e ne
tiro fuori una manciata di concentrato. Mescolo la materia prima. Sapevo che
questa roba esisteva davvero, i doganieri italiani me l’avevano descritta. Ma
come si può far mangiare a degli esseri umani una cosa così ripugnante? La
pasta non è rossa. È nera. Inchiostro nero».
La Repubblica, 3 dicembre 2017
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