Riedito di recente da Il Mulino, il saggio di Felice è già un classico
contemporaneo sulla Questione Meridionale
Di una cosa possiamo ringraziare i revisionisti che, a
partire dal 2010, hanno tentato di rileggere la Questione Meridionale in
maniera più o meno delirante: senza i loro tentativi sistematici di addossare i
guai del Sud esclusivamente all’Unità d’Italia non avremmo avuto la ripresa
della riflessione scientifica, quella vera, sul Risorgimento e sulle sue
conseguenze. Di più: non avremmo avuto la notevole produzione pubblicistica attraverso
la quale gli esponenti più sensibili e brillanti del mondo accademico hanno
replicato ai revisionisti. Ne è un esempio Perché il Sud è rimasto indietro (Il
Mulino, Bologna, ultima ed. 2016) di Emanuele Felice, un
migrante meridionale di lusso, nato in Abruzzo e docente di Storia
economica all’Università Autònoma di Barcellona dopo una
gavetta come docente a contratto a Bologna e Siena.
Il libro, edito in prima battuta nel 2014, è stato già bersaglio degli
strali neoborbonici perché smonta pezzo per pezzo tutte le argomentazioni
tipiche del filone sudista, e cioè: la pretesa floridità del Regno
delle Due Sicilie che sarebbe testimoniata dai tanti primati del regime
borbonico; la declassazione del Sud, ridotto a colonia dai conquistatori
piemontesi; la genesi della criminalità organizzata, che sarebbe un altro
grazioso lascito del Risorgimento; l’uso mirato dei finanziamenti pubblici in
favore del Nord e a danno del Sud, e via discorrendo.
Felice smonta tutto questo con estremo rigore, ovvero accetta gli aspetti
più veritieri di queste tesi, che restano una minima parte, e confuta le
elaborazioni più enfatiche e inconsistenti. Il risultato del suo lavoro? A
dirla tutta non è nuovissimo. Anzi, già in passato alcune tesi - ad
esempio, quelle che ridimensionavano i primati borbonici –
erano già appannaggio non solo degli storici ma anche dei giornalisti: si pensi
al grande Indro Montanelli che definì la ferrovia
Napoli-Portici «il giocattolo di re bomba». La novità sta nel metodo: il prof
abruzzese si serve di una cassetta degli attrezzi particolare, che va dalla
storia economica a un uso non banale della statistica, per trarre conclusioni
politiche da un ragionamento in apparenza solo economico.
Val la pena di anticiparlo qui: il Sud, sostiene Felice, è
rimasto indietro a causa delle sue classi dirigenti che hanno letteralmente
spolpato le popolazioni limitandone le possibilità di sviluppo e di
integrazione nei cicli culturali, produttivi e civili della modernità. E questa
è una colpa di tutti, incluso il regime borbonico. È, in altre parole, la
traduzione storiografica, corroborata da una mole impressionante di riferimenti
statistici sintetizzati con grande efficacia, del mito letterario (e della sua
corrispondente elaborazione storiografica) del Gattopardo: cambiare
perché nulla cambi. Ciò spiegherebbe perché la modernizzazione, cioè
l’inserimento nei processi della civiltà industriale, del Sud sia stata tardiva
e passiva, ossia indotta da fattori esterni e quindi incompleta. Soprattutto,
spiega perché il Mezzogiorno sia pesantemente indietro ancor oggi in settori
delicati della vita civile, come, per fare alcuni esempi la tutela dei diritti
individuali e delle minoranze.
Ovviamente l’autore considera la modernità come un parametro ineludibile e
si serve, per spiegare questo processo - politico ancorché economico - della
classificazione di Daron Acemoglu e James Robinson,
che suddividono le istituzioni politiche in estrattive, che mirano
a perpetuare le posizioni di potere delle élite, e inclusive, che
al contrario tendono ad allargare la propria base di consenso e la
partecipazione. Le prime, va da sé, sarebbero state prevalenti al Sud, le
seconde al Centronord. È davvero così?
Felice non ha dubbi e impiega un buon terzo del suo libro per raccontare,
districando tabelle, quozienti e indicatori, il ritardo con cui il Mezzogiorno
si è presentato all’Unità.
Lo studioso inizia dai dati più certi - e di maggiore comprensione per il
lettore comune - come, ad esempio, il livello delle infrastrutture, il livello
dell’istruzione e quello della salute e della durata media della vita.
Il risultato è particolare, sebbene in linea con la storiografia ufficiale:
il Regno delle Due Sicilie ebbe, in effetti, dei primati da Guinness, come nel
caso delle ferrovie, visto che la Napoli-Portici fu la prima strada ferrata
d’Italia. Ebbe altri primati in alcuni settori industriali e produttivi. Ma,
ecco il punto, questi tanti, piccoli record non facevano sistema. Le ferrovie
del Regno borbonico nel 1860 ammontavano a 180 km contro i 1.800 che univano il
Piemonte alla Lombardia, le strade ordinarie erano insufficienti e malmesse,
gli studi d’avanguardia nell’agronomia non si riflettevano in una produzione di
massa sufficiente, e via discorrendo. I picchi, che ci furono e furono
ragguardevoli, tuttavia non tenevano su la media, che invece lasciava a
desiderare.
E ciò non poteva non riverberare in negativo sul livello di vita della
popolazione: il meridionale, già da prima dell’Unità, viveva meno e peggio
degli italiani del Nord e solo alcune economie regionali, quella campana e
pugliese, ad esempio, riuscivano a tenere il passo. Ma erano le classiche
rondini che non fanno primavera.
Sotto il profilo dei redditi pro-capite Felice va ben
oltre la tesi possibilista di Salvatore Lupo, secondo cui la
forbice tra Nord e Sud durante il Risorgimento era meno consistente e si
sarebbe allargata a partire dal fascismo.
All’illustre storico siciliano Felice replica, basandosi
sull’analisi minuziosa e maniacale di cinquant’anni di ricerche statistiche,
iniziate negli anni ’50 e culminate nei lavori di Vera Zamagni e Stefano
Fenoaltea, che la forbice c’era già e, forse, pure bella consistente.
L’indagine, c’è da dire, è condotta in prima persona, visto che lo stesso Felice ha
partecipato in passato proprio a queste ricerche.
Il risultato è particolare: secondo il prof di Barcellona non esistono dati
certi sul periodo che precede il 1871 ma dalle ricostruzioni presuntive si può
desumere che comunque i meridionali guadagnassero abbastanza meno dei
lavoratori del Nord e di vaste zone del Centro.
Questo risultato, si badi, non è il prodotto di una forzatura di dati
incerti, bensì di un ridimensionamento: infatti Felice valuta
la forbice tra i 10 e i 15 punti in meno sulla media nazionale (considerata
100) dopo aver criticato il risultato di alcune ricerche secondo cui la forbice
sarebbe stata addirittura di 25 punti. Non un’esagerazione polemica da
contrapporre ad un’altra - quella neoborbonica - ma piuttosto una risposta
rigorosa a livello di metodo.
Felice invece concorda con Lupo su un altro aspetto: anche
il Sud è cresciuto, fino a trasformarsi radicalmente. Ma non ha mai tallonato
per davvero il resto d’Italia se non nel momento del boom economico.
Anche in questo caso da un ragionamento economico emergono conclusioni
politiche: il periodo del miracolo italiano fu caratterizzato
dall’accentramento delle istituzioni statali, e quindi, se si vuole,
dall’accorciamento delle distanze politiche tra centro e periferie. E questa
tesi collima alla perfezione con quella della modernizzazione passiva:
il Sud è cresciuto solo nel quadro di una politica dirigista e accentrata. Che,
per paradosso, fu quella che tentò nel Regno delle Due Sicilie proprio Ferdinando
II per scavalcare i poteri locali, nient’affatto esautorati dall’eversione
della feudalità.
E i risultati dell’accentramento si sono visti: il Sud si è sviluppato
grazie a pressioni dal di fuori e dall’alto, i
meridionali vivono quanto i settentrionali, hanno lo stesso livello medio di
istruzione e, in alcuni casi, una qualità della vita equiparabile.
Questo ragionamento ha un corollario pesantissimo: se il Sud ha ripreso a
regredire lo si deve all’attuale regime di decentramento di crescita delle
autonomie, che lo ha lasciato in balia di sé stesso e ha rafforzato la presa delle
classi dirigenti.
E la criminalità organizzata? Al riguardo Felice ne
colloca la genesi all’indomani della cacciata dei francesi e ne inquadra il
rafforzamento nel periodo immediatamente postunitario. Un altro cambio di
prospettiva: il Risorgimento non fu mafioso ma le mafie trassero giovamento dal
vuoto di potere che seguì alla trasformazione politica.
Perché il Sud è rimasto indietro è un libro imprescindibile per chi
voglia riprendere il filo della Questione Meridionale su basi
aggiornate e con una chiave di lettura - finalmente - moderna.
Le sue 200 pagine non sono di facilissima lettura, perché risentono dello
sforzo di sintetizzare un dibattito amplissimo e tuttora in corso. Ma valgono
la pena di uno sforzo perché nei suoi numeri, nelle sue statistiche, nella
densità dei suoi ragionamenti, Felice inizia a fornire risposte
davvero convincenti ai tanti perché inevasi dei problemi del Sud.
Nessun commento:
Posta un commento