Petra Reski - Ph. Shobba |
Perché la
giornalista investigativa pluripremiata Petra Reski continua a scrivere sulla
mafia solo in forma di romanzo.
di CHRISTOF SIEMENS
«Non ho
paura della mafia, ma della viltà degli onesti», si dice in “Bei aller
Liebe” (Con tutto l’amore), l’ultimo romanzo di Petra Reski
sugli intrighi della mafia in Italia e in Germania. Ciò che nel libro mette in
bocca a una procuratrice immaginaria, l’autrice insignita di premi potrebbe
dirlo a buon diritto anche di sé stessa. Da anni in saggi, articoli di giornali
(anche per die Zeit) e romanzi si occupa dei crimini di Cosa Nostra
e co.; per un certo tempo ha potuto comparire in pubblico solo sotto protezione
della polizia. Ma la maggior parte dei problemi per il suo lavoro meritorio li
ha attualmente non con qualche losco figuro, ma con le finezze della giustizia
tedesca e internazionale così come con un famoso editore di Berlino.
Due
settimane fa il tribunale di Amburgo ha pronunciato l’ultima sentenza in una
serie di processi nei quali Petra Reski è coinvolta da anni. Questa volta lei
stessa aveva intentato un’azione legale – contro Jakob Augstein, erede dello
Spiegel, editore e caporedattore del settimanale „Der Freitag“. A marzo 2016 vi
era apparso l’articolo della Reski “Ai boss piace il tedesco”, nel quale, tra
l’altro, scriveva di un processo che un uomo d’affari italiano di Erfurt aveva
intentato con successo contro un documentario sulla mafia della rete televisiva
MDR, nel quale egli si riteneva rappresentato come presunto affiliato alla
mafia. Nel suo articolo la Reski faceva il nome del ristoratore – credendo si
trattasse di lecita cronaca giudiziaria. Egli ha tuttavia querelato in un primo
tempo la Reski personalmente per violazione dei suoi diritti della personalità,
e successivamente il „Freitag“, che in seguito a ciò ha tolto l’articolo dalla
sua pagina web e – contrariamente all’abitudine del mondo dei media – ha
lasciato sola la sua autrice ad affrontare le scaramucce giudiziarie.
Augstein,
sempre molto combattivo dalle sue colonne del suo Spiegel online, ha rifiutato
alla giornalista investigativa indipendente Reski la difesa legale, e come se
non bastasse, ha messo per principio in dubbio la serietà del suo lavoro in
diversi tweet e prese di posizione. Lei ha sporto querela contro cinque di
queste dichiarazioni, tre delle quali adesso Augstein non potrà più ripetere.
Il danno però rimane: da un lato la Reski è costretta a sostenere la maggior
parte delle spese legali, dall’altro Augstein può ad esempio, con riferimento
all’autrice, continuare ad affermare che le redazioni «non sono
un’assicurazione di tutela legale per inchieste di scarsa qualità». Anche se
Petra Reski ricorrerà in appello contro la sentenza – quale giornalista oserà
adesso scrivere un articolo sul tema mafia, se perfino noti editori temono il
rischio inevitabilmente collegato a questo e alla minima contrarietà prendono
le distanze dai loro autori?
Di diverso
genere è il dilemma reso chiaro da una sentenza della corte di giustizia
europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo. Questa volta si tratta del
saggio di Petra Reski “ Santa Mafia” del 2008. Anche contro di esso aveva
sporto querela un uomo d’affari italiano, che si vedeva ingiustamente indicato
quale «presunto affiliato alla ‘Ndrangheta», la mafia calabrese.
Su un simile
sospetto è lecito scrivere se questo può fondarsi su un «minimo di prove». Come
tali la Reski nel suo libro citava tra l’altro rapporti interni della polizia
criminale tedesca BKA; lungo i diversi gradi del processo ella ha inoltre
addotto ulteriori atti, come pure dichiarazioni giurate di investigatori
italiani. Il numero due della Procura nazionale antimafia si è persino
offerto egli stesso di testimoniare dinanzi a un tribunale tedesco sui
coinvolgimenti del querelante.
Tutto questo
materiale, però, non è stato accettato dalla giustizia tedesca quale fonte
cosiddetta privilegiata. Una protesta presentata alla Corte Costituzionale
Federale tedesca è stata respinta; la casa editrice della Reski Droemer Knaur
(che, diversamente da Augstein, è rimasta fedele alla sua autrice nel processo
che dura da anni) ha annerito i passi corrispondenti nel libro, ha pagato
all’uomo d’affari 10.000 euro di risarcimento danni – e si è infine rivolta
alla suprema corte europea. Qui adesso non si discute più il caso concreto; nel
processo dell’editore della Reski contro la Repubblica Federale tedesca si
tratta di una questione ben più importante: la giustizia tedesca con le sue
sentenze ha violato in questa faccenda il diritto alla libertà d’espressione?
Sei dei
sette giudici dicono di no. Come fonti di cronaca anche i giudici di Strasburgo
accettano – come precedentemente i loro colleghi tedeschi – solo dichiarazioni
di una procura inquirente accessibili al pubblico da parte o sentenze passate
in giudicato. Ciò significa che i rapporti della polizia criminale tedesca BKA
e altri documenti interni non sono pertanto sufficienti per poter scrivere
articoli sul sospetto di intrighi mafiosi, facendo menzione di nomi veri.
Il pensiero
che vi sta dietro è del tutto comprensibile: la tutela della personalità è un
bene prezioso; un sospetto viene rapidamente messo in giro, e già un annuncio
anonimo può portare alla stesura di un verbale da parte delle autorità
inquirenti, che però non vale ancora automaticamente come fonte. Se si vogliono
tuttavia sfruttare tali documenti interni – e senza di essi il giornalismo
investigativo è assolutamente impossibile -, l’interessato, prima della
pubblicazione del suo nome, deve essere messo a confronto con le informazioni e
deve essere richiesto il suo parere. I giudici europei lo hanno ancora una
volta espressamente sottolineato.
Nel caso di
un servizio giornalistico sulla mafia, questo modo di amministrare la giustizia
sembra però piuttosto lontano dalla realtà. Senza il sostegno di una grande
redazione un’autrice indipendente deve andare incontro alla prevedibile
smentita, così da venire fra non molto pedinata e minacciata, come è successo a
Petra Reski? Una giudice della Corte di Giustizia europea, comunque, non ha
voluto appoggiare questo primato assoluto della tutela della personalità
davanti al diritto alla libertà di opinione. Forse è dovuto al fatto che Nona
Tsotsoria proviene dalla Georgia, dove avrà fatto esperienza con le strutture
mafiose. Nel suo voto divergente dal giudizio dei suoi colleghi considera i
rapporti interni fonti del tutto ufficiali e deplora profondamente «questa
inquietante distanza dalla comune interpretazione della giustizia».
In Italia,
dove Petra Reski vive da decenni, la situazione della giustizia è diversa per
via delle esperienze nella lotta antimafia in molti ambiti. Ad esempio lì è già
configurazione di reato la semplice appartenenza alla mafia. Inoltre per
evitare il riciclaggio di denaro sporco si è invertito l’onere della prova: chi
investe grandi quantità di denaro contante deve essere in grado di dichiararne
la provenienza – in Germania invece spetta alle autorità inquirenti dimostrare
eventualmente che il denaro proviene da affari illeciti. Per quanto riguarda la
cronaca, nella patria di Cosa Nostra è lecito citare, facendo i nomi, da tutte
le fonti disponibili; queste comprendono anche i protocolli delle molte
intercettazioni ambientali, che a questi livelli non verrebbero mai concesse in
Germania, ma senza le quali la lotta antimafia è praticamente impossibile. (Che
questa prassi abbia anche i suoi lati negativi e che nelle intercettazioni
possano comparire persone completamente estranee, è indiscutibile.)
Naturalmente anche in Italia presunti mafiosi sporgono querela contro articoli
su di loro. Ma non le è noto un solo caso in cui un giornalista con fonti
interne sia stato sconfitto dinanzi a un tribunale, dice Petra Reski.
Per potersi
poi permettere di affrontare altre cause con Augstein e con l’uomo d’affari di
successo di Erfurt, ha organizzato una colletta; 262 sostenitori hanno
procurato in poco tempo 20.000 dollari. Ma perfino questi non basteranno se l’imprenditore
italiano dovesse avere successo con la sua ultima richiesta di risarcimento
danni: egli pretende 25.000 euro – più che sufficienti per chiudere
definitivamente la bocca a una giornalista indipendente e a molti dei suoi
colleghi insieme a lei. Il processo avrà luogo a febbraio.
Petra Reski
ha tratto dalle querele una conclusione tanto inquietante quanto liberatoria:
col suo lavoro è emigrata nel regno della finzione e scrive sulla mafia
solamente in forma di romanzo. E’ un peccato, perché significa una sconfitta
per la libertà di opinione e di stampa e perché verrà a mancare la caparbietà
della Reski in questo ambito giornalistico. Ma è pure bello perché intanto ci
sono tre avvincenti romanzi sulla procuratrice Serena Vitale. Lì ci sono più fatti
veri sulla mafia di quanti ne potrebbero mai essere scritti in un giornale.
Contro questi libri non ha sporto querela ancora nessuno.
DIE
ZEIT, 18 November 2017
Nessun commento:
Posta un commento