di PIPPO ODDO
Inferno,
inferno vero: metafora obbligata per chiunque abbia voluto descrivere
l’ambiente delle zolfare siciliane, nei cui labirinti, oscuri e mefitici, si
aggiravano spossati dalla fatica, sudati e spesso nudi, poveri diavoli e
piccoli dannati di 8-10 anni, «sventurate creature» condannate «al rachitismo e
alla deformità» per pochi spiccioli al giorno. Inferno che un tempo si
annunziava già con l’aspetto del territorio circostante. E non risparmiava
nemmeno l’area in cui sorgono, «in mezzo ad un paesaggio magnifico e desolato»,
i templi di Agrigento. «Tutto e
morto – notava nella primavera 1885 Guy de Maupassant – arido e giallo, attorno
ad essi, dietro e davanti ad essi. Il sole ha bruciato, mangiato la terra. Anzi
è veramente il sole che ha corroso così il suolo, oppure il fuoco profondo
che brucia sempre le vene di quest’isola di vulcani? Poiché, dappertutto
attorno a Girgenti. si stende la singolare contrada delle miniere di zolfo. Qui
tutto è zolfo, la terra, le pietre, la sabbia, tutto […] Dopo la collina dei
templi di Girgenti comincia una contrada stupefacente che sembra l’autentico
reame di Satana, poiché se, come lo si credeva una volta, il diavolo abita in
un vasto paese sotterraneo, pieno di zolfo in fusione, in cui fa bollire i
dannati, è sicuramente in Sicilia che ha eletto il suo misterioso domicilio».
Inferno, ‘nfernu veru, di cui adesso rimane solo il ricordo. Le zolfare sono
tutte chiuse, in Sicilia. Irreversibilmente. «Ci sono ormai plaghe, rimanenze
ischeletrite dove batte il vento», osserva Sebastiano Addamo. «Plaghe dove sono
disseminati ferri contorti e arrugginiti, rottami e scorie di tutti i tipi,
binari divelti, contenitori sventrati, carcasse inutili e turpi di quanto un
tempo fu vita, attività e anche strazio; ci sono i resti di qualche calcarone
ancora quasi intatto alla base ma ormai demolito, un forno Gill, gli uni e
l’altro immagini di un popolo sconfitto e ormai sfuggito; i brevi casamenti che
erano usati come botteghe e depositi, ridotti a cumuli di pietra».
In mezzo a un
così desolante ammasso di rottami si notano alcune discenderie, quelle «tane
di lupo» immortalate dalla penna di Giovanni Verga, attraverso le quali una
volta si accedeva al sottosuolo. Non lontano da questi buchi s’incontra ciò
che resta degli ultimi cumuli di rosticci di zolfo (ginisi) in mezzo ai quali
comincia tuttavia a crescere, come sulle vecchie tombe, l’erba. Altri segni del
passato minerario si rinvengono sorprendentemente nei salotti di certa
borghesia inurbata non priva di sensibilità estetica, dove sono finiti molti
degli oggetti di cui amavano circondarsi le famiglie degli zolfatari: statuette
raffiguranti la Madonna o i Santi, ma anche cavallucci, cagnolini, pesci,
scarpette e quant’altro poteva esser plasmato con lo zolfo fuso che i minatori
facevano colare negli stampi in gesso da loro stessi realizzati. A ricordare
la lunghissima vicenda estrattiva sono inoltre le splendide cristallizzazioni
di zolfo e di altri minerali che i minatori, per dirla con Leonardo Sciascia,
avevano tratto fuori da «quelle nicchie millenarie», conosciute a Racalmuto
come garberà o varbere, per portarsele a casa, «ad adornare il canterano, tra
le tazzine del caffè e la statuetta della Madonna o del Santo Patrono».
Le vie dello
zolfo raggiungono insomma persino gli angoli più insospettati ed esclusivi
della realtà siciliana. Documentano l’estro creativo e il gusto del bello
coltivato dai dannati delle zolfare. Testimoniano di una vicenda produttiva
tutta siciliana iniziata nella notte dei tempi.
Gli scavi
archeologici praticati tra il 1987 e il 1997 alle pendici meridionali del Monte
Grande (al confine tra i territori comunali di Agrigento e Palma di
Montechiaro) hanno riportato alla luce alcune strutture per l’estrazione e la
lavorazione dello zolfo risalenti all’età del bronzo. Anche Colle Madore,
piccola collina nei pressi di Lercara Friddi. «appena più elevata su di un
panorama di altre colline degradanti verso le valli», vanta un passato
minerario con radici preistoriche. «Non vi è dubbio che qui – scriveva nel
1998 il povero Carlo Romano – fosse insediata una comunità indigena,
certamente sicana, dedita alle attività agricole e silvo-pastorali, al
commercio ed a un sia pur primordiale sfruttamento delle risorse naturali,
prime fra tutte lo zolfo». Nella sua Storia della Sicilia antica Finley
sostiene che sotto l’impero romano Agrigento fu «il centro della nuova
industria dello zolfo, la cui estrazione, monopolio dell’imperatore, era attuata
attraverso concessioni». La sua tesi è confermata dai reperti epigrafici delle
tabulae sulphuris (conservate nei musei di Agrigento e Palermo) da cui si
evince che alla fine del secondo secolo d.C. erano attive alcune miniere
imperiali nelle quali lavoravano schiavi e delinquenti comuni.
Sappiamo
inoltre da Michele Amari che l’attività estrattiva fu pure fiorente in epoca
araba. A mandare avanti il lavoro nelle miniere erano i «picconieri», capaci
di maneggiare il giallo metalloide e perciò fortemente esposti al rischio di
«perdere i capelli e le tigne». Ma per fortuna a volte capitava «che lo zolfo
scorresse liquefatto, onde bastava loro scavare dei fossarelli e quando era
rappreso lo tagliavano con le accette». Quasi nulla sappiano invece della
considerazione in cui era tenuto il biondo minerale dai Normanni che, com’è
noto, scacciarono dall’Isola gli Arabi. Tutto lascia però credere che per
secoli nessuno si sia più occupato di miniere di zolfo, finché l’invenzione e
la diffusione della polvere da sparo non alimentò, come ha scritto Giuseppe
Barone, «una limitata produzione, documentata da permessi di ricerca rilasciati
dai sovrani e da contratti privati per la coltivazione di cave o pirrere
superficiali».
All’inizio
del Settecento nell’Isola erano attive appena sei miniere, alle quali se ne
sarebbero aggiunte altre cinque verso la metà dello stesso secolo. Di una di
queste, ricadente nella provincia di Caltanissetta, si tramanda una leggenda
che la vorrebbe nata in seguito a una curiosa scoperta di un pastore che si
trovava in riva ad un fiume con il proprio gregge. Provando ad accendere il
fuoco accanto a una «pietra gialla», l’ignaro guardiano di pecore sentì un
odore sgradevole, acre, quasi infernale. E subito dopo si vide circondato da
spaventose fiamme. È superfluo aggiungere che per qualche tempo i contadini e
i pastori del luogo si guardarono bene dall’ avvicinarsi alle «pietre gialle».
La paura
svanì nell’ultimo decennio del secolo dei lumi, dopo che fu brevettato il
metodo Leblanc (1791), che consentiva di fabbricare la soda mediante la
decomposizione del sale comune trattato con l’acido solforico. L’importante scoperta
segnò la nascita della moderna industria chimica e, di conseguenza, anche della
domanda internazionale di zolfo siciliano. «Ed ecco – osserva Vincenzo Consolo
– che le sotterranee divinità plutoniche, signore delle tenebre e della morte,
si trasformarono in benigne divinità della speranza. Il mito si distrugge, si
razionalizza, i pozzi e le gallerie che inseguono la vena gialla dello zolfo
non nascondono più paure metafisiche, ma reali, concreti pericoli di crolli,
d’allagamenti, di scoppi, d’incendi». Ma tutto ciò faceva parte del conto: era
un prezzo da pagare non già a Satana, ma al dio progresso. Dove c’erano o si
riteneva che ci fossero tracce di «pietra gialla», lì cominciò ad arrivare il
piccone del contadino.
«La febbre
dello zolfo – cito ancora Consolo – prende tutti, proprietari terrieri,
gabelloti. partitami, picconieri, commercianti, bottegai, magazzinieri,
carrettieri, artigiani, arditori, carusi; attira già avveduti stranieri,
esperti di speculazioni e di profitti». Redini di sei o sette muli, carichi di
zolfo, guidati da bordonari e da carusi, cominciano a far la spola tra le
zolfare e i porti di Girgenti, Licata e Catania.
L’avvio di
questa frenetica attività non fu certo dei più semplici: bisognava attraversare
le impervie e solitarie contrade della Sicilia interna, prive di vere strade,
a malapena servite da vecchie trazzere, strette e disselciate, polverose
d’estate e fangose nella brutta stagione. Gli stessi porti versavano in
pessime condizioni e i velieri diretti in Francia e Inghilterra potevano esser
caricati solo al largo. Girgenti. il principale punto d’imbarco dello zolfo
siciliano (assicura Denis Mack Smith), «aveva ricevuto denaro nel diciottesimo
secolo dal suo vescovo per costruire un frangiflutti con le rovine del tempio
greco di Giove, ma nel 1840 l’opera non era ancora terminata: le operazioni di
carico erano estremamente lente e dispendiose, ed erano necessari quattrocento
scaricatori anche per una piccola nave, mentre molti ergastolani lavoravano
continuamente per mantenere il porto libero da banchi di sabbia».
Non per
questo, però, l’industria estrattiva ci mise troppo tempo a decollare,
specialmente dopo il 1808. quando re Ferdinando decise, per motivi attinenti
alle guerre napoleoniche di rinunciare ai propri diritti di monopolio sulle
miniere. Un roseo avvenire si schiuse allora per i proprietari terrieri e per
quanti ebbero naso per fiutare l’odore dei quattrini. Emblematico è il caso
citato da Adolfo Rossi nel 1894: «A poco più di tre chilometri da Caltanissetta
si trova un gruppo importante di zolfare, la maggior parte delle quali
appartengono al deputato Testasecca, creato conte per la cospicua donazione che
fece ai poveri in occasione delle nozze d’argento dei sovrani. I nonni del neo
conte erano dei poveri borghesucci quando verso il 1830 comprarono per pochi
soldi alcune colline di quei dintorni. Erano colline superficialmente molto
povere, ma che nel loro seno racchiudevano tesori. E infatti appena se ne
accorsero e cominciarono a sfruttarle, i genitori dell’onorevole Testasecca
divennero in pochi anni arcimilionari».
A render
possibili questi rapidi arricchimenti fu anche una legge borbonica del 1826.in
forza della quale i proprietari terrieri potevano sfruttare le risorse del
sottosuolo, previo pagamento di una modica tassa detta di aperiatur. Fiumi di
denaro andarono così ad impinguare la rendita mineraria del baronaggio. Ma non
tutti i “Gattopardi” si comportarono in modo intelligente. Al contrario, solo
pochi di questi signori ebbero la lungimiranza di non frantumare i loro
giacimenti di zolfo e di promuovere l’apertura di grandi miniere: i Lanza di
Trabia per la Zolfara Grande e la Zolfarella a Sommatolo, i Pigliateli] Fuentes
per la Tallarita a Riesi, i Sant’Elia per la Grottacalda a Piazza Armerina, i
Pennisi per la Fioristella a Valguarnera, i Morillo per la Trabonella a
Caltanissetta, i Monteleone per la Lucia a Favara, i Villafranca per il gruppo
Zimbalio, Panche e Ogliastrello ad Assoro, gli Spitaleri per la Muglia a Centuripe.
La maggior
parte dei latifondisti (sostiene Giuseppe Barone) «preferì suddividere lo
stesso bacino in decine di piccole concessioni che moltiplicavano il valore
della rendita fondiaria nel breve periodo, ma depauperarono irrimediabilmente
il giacimento: l’esempio forse più noto e quello dei duchi di Notarbartolo di
Villarosa che in pochi decenni portarono alla rovina il vasto bacino minerario
dei comuni di Santa Caterina, Villarosa e Calascibetta. In molti casi, lo sminuzzamento
della proprietà superficiale faceva sussistere precari sistemi condominiali:
la zolfara Piraino del gruppo Colle Croce a Lercara su un’estensione di 8.627
mq contava 361 comproprietari ripartiti in 58 famiglie, e nella zolfara Romano
dello stesso gruppo figuravano un proprietario per 3/24. più 2/6 di 1/24 e così
di seguito da rendere assai complicati i contratti di gabella».
Ma la realtà
lercarese non era affatto assimilabile a nessun altro bacino minerario
dell’Isola, se non altro perché a Lercara Friddi l’avventura estrattiva era
iniziata solo nel 1832 e con grande stupore del principe di Palagonia, già
titolare di giurisdizione sul paese. Don Francesco Paolo Gravina, a dire il
vero, non era un nobiluomo così distratto da disinteressarsi delle risorse
sotterranee delle sue proprietà. Già nel 1821 aveva avviato a proprie spese
delle ricerche nelle terre dette li cumuna, residuo delle quattro salme che un
suo antenato aveva assegnato, spiega Giuseppe Mavaro, «non in proprietà, ma in
uso, alla comunità agricola che voleva fondare». Ma i sondaggi avevano dato
esito negativo. Il principe fu quindi colto di sorpresa quando seppe che, sotto
la superficie delle terre limitrofe a li cumuna, era stato scoperto tanto zolfo
da attirare massicci investimenti di intraprendenti imprenditori inglesi come
Gardner e Rose.
Ma le
sorprese non erano ancora finite: il nobiluomo avrebbe presto scoperto che tra
i gestori delle zolfare di Lercara c’era pure un altro illustre negoziante
straniero domiciliato nella capitale dell’Isola, tal Eco Hister, «Console di
Sua Maestà Prussiana». Comunque, vuoi perché si sentiva rodere dall’invidia,
vuoi perché non era del tutto insensibile ai problemi dei suoi ex vassalli,
l’ex signore di Lercara sulle prime sostenne a spada tratta le ragioni della
cittadinanza che protestava contro la combustione illegale del minerale di
zolfo denunciando «la fondata minaccia alla salute pubblica per l’aria
irrespirabile molto più per essere alcune di queste macchine attaccate
all’abitato e vani giorni sono costretti gli abitanti di detta Comune a
serrarsi in casa per non esporsi al pericolo di venire soffocati».
Poi successe
un fatto che gli fece cambiare radicalmente opinione. Inseguendo una vena di
zolfo, un piccolo imprenditore aveva prolungato la galleria della propria
miniera sconfinando nel sottosuolo di li cumuna che si rivelò più ricco di
quanto egli stesso pensasse. Per tutta risposta il sindaco di Lercara. Antonino
Giglio e Sartorio, fece approvare dal decurionato (consiglio comunale) una
delibera volta a ripristinare gli originari confini divisori e a far pagare i
danni al padrone della zolfara. Venutone a conoscenza, il principe ordinò nuovi
sondaggi e si rese conto del reale valore delle terre comuni. Non perse perciò
tempo a rivendicarne la proprietà. Il sindaco e il decurionato si opposero, ma
inutilmente: l’intendenza diede ragione al principe e poco dopo nominò un nuovo
sindaco. Il nobile paladino della salute pubblica ebbe quindi gioco facile nel
chiedere e ottenere l’autorizzazione ad aprire, vicino al paese, nelle terre
dette li cumuna, una zolfara che diede in gabella a don Vincenzo Florio.
Nonostante il
clamoroso voltafaccia, il principe riuscì tuttavia a mantenere integra la
propria immagine. A fornirgliene l’occasione fu il colera del 1837, che scoppiò
pochi mesi dopo. Il nobiluomo ci mise però anche qualcosa di suo: fece venire
due Cappuccini da Palermo per l’assistenza spirituale ai colerosi che rifornì
di cibo e medicinali, ma anche di «tutti gli utensili per la fornitura
dell’ospedale, consistenti in letti, vasi, bicchieri, stoviglie e tine per
bagni».
Ma tutti i
proprietari di zolfare, siciliani e stranieri, cattolici, protestanti e
miscredenti, erano bravi a farsi perdonare i loro peccatucci con opere
caritatevoli e concreti sostegni alla santa chiesa. In tempi normali
investivano una «fusa» di zolfo all’anno a gloria del Santo Patrono, certi di
ricevere in cambio la protezione delle locali gerarchie ecclesiastiche. E non
si sbagliavano. La gente che protestava contro la combustione selvaggia dello
zolfo veniva messa a tacere dai preti che enfatizzavano i benefici apportati
dalle miniere. Sicché gli industriali potevano continuare a fare quello che
volevano, ridendo in faccia a sindaci e magistrati zelanti, filantropi e
sottointendenti.
L’illegalità
regnava sovrana in lutti i comuni minerari. La legge proibiva la combustione
del minerale vicino ai campi coltivali e a meno di tre miglia dai centri
abitali… e le fiamme azzurrognole sprigionavano gas fin dentro i paesi, accanto
alle vigne e ai mandorleti, avvelenavano uomini, animali e piante. È vero, le
zolfare limitrofe ai centri abitati disponevano di forni che, se usati
correttamente, consentivano di fondere il minerale senza inquinare troppo
l’ambiente. Forni che però presentavano «un doppio carattere, ossia quello di
fusione e quello di puro bruciamento». Ma la fusione comportava una spesa
enorme. Gli industriali di conseguenza la scartavano e continuavano a bruciare
i calcaroni. Poco importava insomma a quei signori se l’anidride solforica si
faceva sentire «nelle strade della Comune, nelle case e nelle campagne dei
benfatti a seconda del soffio dei venti».
Naturalmente
i soggetti più a rischio erano gli zolfatari. Essi si dividevano in due
categorie: interni ed esterni. Questi ultimi erano i carcarunara i quali,
aiutati da fanciulli di 8-10 anni (carusi), si occupavano del riempimento e
dello svuotamento delle fornaci (carcaruna) e gli orditura, addetti alla
fusione del minerale e alla raccolta dello zolfo fuso. Tipiche figure di zolfatari
interni erano: i picconieri (pirriatura) che estraevano il materiale; gli
spisalora, addetti alla ricerca di nuovi filoni e alla manutenzione della
zolfara; gli acqualora. il cui lavoro consisteva nell’eliminare le acque
d’infiltrazione: i carrittera, i quali trasportavano lo zolfo su vagoncini
fino ai piedi della discenderia: i carusi che, caricati come somari, portavano
lo zolfo fuori dalla miniera.
Sulla
penosità del lavoro minorile nelle zolfare si è scritto a profusione. «Ore
nove e tre quarti – così annotava nel 1893 Adolfo Rossi, reduce dalla visita
alla miniera Cinnirella – dopo un po’ di riposo torniamo indietro e cominciamo
la salita. È durissima per noi che non portiamo nulla sulle spalle, che siamo
robusti e ben nutriti. Come dev’esser più dura, malgrado l’abitudine, per gli
infelici carusi! Ne incontriamo a ogni minuto. Si sente ora la loro
respirazione affannosa, e ora quel lamento che fa tanta pena. Qualcheduno urta
di tanto in tanto col suo carico contro la volta bassa. Qualche altro sdrucciola
e cade come Cristo sotto la sua croce, senza trovare un pietoso cireneo!
Altri, non potendone più, gettano per un momento il pesante fardello e siedono
ansanti per riprendere un po’ di fiato. Alla svoltata di una galleria un
caruso è lungo disteso sui pezzi aguzzi del materiale che a lui, sfinito dalla
fatica, devono sembrare un soffice materasso. Passa in quella un sorvegliante e
toccandolo con l’aguzza asta di ferro che gli serve da bastone gli domanda:
“dormi”. Man mano che saliamo una corrente d’aria, che a noi pare gelata,
scende dall’altissima imboccatura del pozzo. Anche coperti di lana, c’è da
prendere una polmonite. E i carusi, grondanti di sudore, sono nudi».
I carusi
venivano assunti con il sistema del «soccorso morto», ossia tramite un cospicuo
anticipo in denaro che il picconiere, lavoratore a cottimo, versava ai genitori
di fanciulli di 8-10 anni costretti a restare alle sue dipendenze fino
all’estinzione del debito: cosa che a volte si verificava dopo un paio di
lustri, se non di più. Passavano, insomma, gli anni migliori della loro vita in
condizione servile, i carusi. E si dava anche il caso che fossero oggetto
ludico delle insane voglie sessuali dei loro padroni che li chiamavano
«culari». Subivano violenze d’ogni sorta e dovevano pure stare zitti, quando
gliele faceva il loro picconiere, cui dovevano peraltro baciare le mani
all’inizio e alla fine di ogni giornata di lavoro. Il loro companatico era
spesso cipolla cruda e persino olio bruciato della lucerna.
Ma la vita
non era gioco per nessuno, in quelle bolge infernali. Se gli acqualora dovevano
farsi in quattro per evitare che allagassero le gallerie, i picconieri
scavavano montagne di zolfo e sparavano mine con noncuranza della propria e
altrui incolumità. Potevano essere «rozzi, incolti, avidi, sudici, violenti,
ubriaconi, irruenti, istintivi ed altro ancora», ma lavoravano come muli di
masseria, erano «l’anima pulsante della miniera». Mangiavano le stesse cose
degli altri addetti alla zolfara, nei giorni lavorativi. E la domenica non
lasciavano soli i compagni intenti a celebrare i riti di Bacco nella taverna,
putia o ‘ncantina che dir si voglia, con l’illusoria speranza di annegare, tra
bestemmie e tocchi di vinu, le amarezze e gli incubi del quotidiano.
Frane,
incendi, allagamenti, crolli di ponti e gallerie… erano però eventi che non si
potevano scongiurare con le sbornie. E gli zolfatari morivano a quattro a
quattro, a dozzine, a centinaia. Morivano e si parlava di disgrazia, di
destino infame, di maledizione divina caduta tra capo e collo su quegli
ubriaconi dalla bestemmia facile. Nessuno denunciava la violazione delle norme
di sicurezza del lavoro nelle zolfare, non uno solo puntava il dito contro
l’avidità e la mancanza di scrupoli dei gabelloti (affittuari delle estrazioni
e dei partitanti (cottimisti). Gli stessi sopravvissuti ai disastri non
sapevano fare altro che maledire le persone più care, i preti, la loro stessa
natura umana: Maliditta me mairi che mi figlià, Porcu lu parrinu chi mi vattià,
Cristu era megliu che mi facia porcu, alumenu all’annu mi scannavanu e la
pigliava ‘nculu e muria (Maledetta mia madre che mi figliò! Porco il prete che
mi battezzò! Era meglio che Cristo mi avesse fatto porco, almeno dopo un anno
mi scannavano, e la pigliavo nel culo e morivo).
Imprecavano
contro la mala sorte, attaccavano il Signore, la Madonna e i Santi, avevano un
linguaggio sboccato… ma non potevano nemmeno mugugnare quando una «disgrazia»
in miniera provocava una decurtazione salariale come quella denunciata da Carlo
Levi una cinquantina d’anni fa: «Alla busta-paga del morto venne tolta una
parte del salario, perché, per morire, non aveva finito la sua giornata; e ai
cinquecento minatori venne tolta un’ora di paga, quella in cui avevano
sospeso il lavoro per liberarlo dal masso e portarlo, dal fondo della zolfara,
alla luce».
Non
bastassero le ingiustizie subite in vita, ancora durante l’ultimo conflitto
mondiale gli zolfatari morti per infortunio sul lavoro non avevano diritto né
al viatico come Dio comanda né alle funzioni religiose in chiesa. Era già tanto
se il corteo funebre sostava davanti a un’edicola votiva sormontata da una
croce dove un compagno dello scomparso improvvisava un breve elogio funebre per
ricordarne la vita. A Ragalmuto si conserva ancora la memoria di uno di questi
discorsi: «Travagliasti a lu Dammusu, travagliasti a Gihillni, travagliasti a
la Tri e sei, onuratu di mia e di tutti li cumpagni. Futtitinni si muristi».
(Hai lavorato alla miniera Dammuso, hai lavorato alla Gibillini, hai lavorato
alla Tre e sei, onorato da me e da tutti i compagni. Fottetene se sei morto).
Le miniere
cominciarono a chiudere una dopo l’altra verso la metà del Novecento, a causa
dell’agguerrita concorrenza dello zolfo statunitense, prodotto a basso costo.
Erano state motivo di grandi disastri, di arricchimenti, di tracolli finanziari
e persino centri di potere mafioso, a considerare il fatto che tra gli ultimi
gabelloti di zolfare spicca il nome di don Calò Vizzini, capo dei capi della
vecchia mafia rurale. Sarebbe tuttavia sbagliato dimenticare l’eredità positiva
dell’esperienza mineraria.
Negli anni in
cui si aprirono le prime zolfare l’entroterra siciliano era chiuso in sé
stesso, privo di strade. Per attraversare i fiumi i viaggiatori erano
costretti a ricorrere all’aiuto di «robusti marangoni», ossia di uomini forzuti
che sbarcavano il lunario facendo il mestiere di san Cristoforo, aiutando cioè
i passeggeri a guadare i corsi d’acqua. Ma già nel 1840, quando ì Francesi e
gli Inglesi si contendevano lo zolfo siciliano la Sicilia centrale era
discretamente dotata di strade a ruota. Lercara Friddi ebbe in anticipo
rispetto ad altri comuni il servizio telegrafico. La miniera Trabia fu servita
di una delle prime centrali elettriche d’Italia. In tutti i comuni minerari
fiorirono il commercio, l’artigianato e l’industria delle costruzioni. Vi
arrivarono prima che altrove le ferrovie. La cultura popolare si arricchì di
canti delle zolfare. poesie in vernacolo, tradizioni, feste religiose. E si
aprì pure un capitolo nuovo per la letteratura e le belle arti. «Per esempio –
ricordava Leonardo Sciascia -, senza la zolfara, senza la presenza e il peso
delle miniere di zolfo, credo che la Sicilia occidentale alla quale
appartengono Pirandello, Rosso di San Secondo, Nino Savarese, Francesco Lanza,
e io stesso, non avrebbe prodotto scrittori. La zolfara ha rappresentato una
grande apertura al mondo, una grande occasione di presa di coscienza per
l’uomo siciliano».
Onore,
dunque, agli zolfatari e a quanti si adoperano per non disperderne la memoria.
La speranza è che le popolazioni interessate, con gli amministratori in testa,
si decidano una buona volta a valorizzare le aree minerarie dismesse e sappiano
cogliere le opportunità offerte dall’Unione Europea e dalla stessa legge
regionale istitutiva dei musei delle miniere.
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