di ROBERTO TAGLIAVIA
La
necessità della discontinuità con le più recenti politiche regionali e
l’urgenza di una proposta di riforma della Regione, fino alla revisione dello
Statuto, sono riconducibili alla gravità del divario tra noi e le regioni del
nord, che è economico, sociale e civile. Non si misura quanto la profondità di
questa divisione stia logorando le ragioni dell’unità e della stessa democrazia
italiana. La
condizione di degrado economico e civile della Sicilia rende ancora più difficile
il rapporto con il resto del Paese e rimette in discussione lo stesso valore
dell’autonomia regionale e della specialità dello Statuto.
C’è
chi accusa la Regione di essere intralcio per un efficace rapporto tra i
siciliani e lo Stato, usata come scusa del disimpegno verso la Sicilia dai
Governi nazionali, e propone di abolirla. C’è chi si limita a volere
ridimensionare la specialità dello Statuto, riconducendo la Sicilia a statuto
ordinario. C’è chi, per contro, teorizza un forte rilancio della specialità
come strumento per una nuova e più efficace conflittualità con lo Stato. In
sostanza, tutti chiedono che sia lo Stato a farsi carico della nostra
situazione, ma si scontra con le politiche e gli egoismi di una parte del Paese
che non è più minimamente intenzionato a farsi carico del Mezzogiorno e della
Sicilia.
E’
del tutto evidente che la Regione, così com’è, comunque non risolve i problemi
della Sicilia nè aiuta la ricomposizione di un clima di civile coabitazione nel
Paese. Entrambe le posizioni, a favore o contro la specialità, in fondo
ripropongono la vecchia visione risarcitoria che lo Stato dovrebbe avere nei
confronti della Sicilia per i torti inflitti durante il processo unitario
d’Italia. E’ evidente che se siamo in questa situazione è perché anche la
proposta risarcitoria non è stata in grado di unificarci realmente al resto del
Paese.
Per
di più, la nostra specialità, pensata prima ancora della stessa Costituzione,
non ha nel suo orizzonte l’Unione europea, nuova fonte di diritto, regolatrice
dell’economia reale, oltre che erogatrice di fondi attraverso procedure e
metodologie estranee alla tradizione burocratica del secolo scorso. In un
contesto europeo, in una economia globalizzata, si è dimostrato ancora più
insufficiente il modello di Autonomia sovranista che ritagliava sui confini
regionali poteri quasi statuali, per difendere i privilegi locali dalle
influenze del mondo che ci circonda.
La
crisi ci impone allora di abbandonare vecchie e impraticabili soluzioni,
innovando la nostra Regione e nello stesso tempo rinnovando il Paese e la sua
concezione dello Stato, contribuendo a un rilancio dell’Europa delle regioni, o
dei territori, attraverso una democratizzazione e semplificazione delle stesse
istituzioni comunitarie.
Per
adeguare la Regione ai nostri tempi servono certamente le semplici misure già
suggerite dal prof. Renda e fatte proprie oggi da Orlando e Micari, quali
l’abolizione del voto segreto all’ARS (salvo il limite del voto sulle persone)
e l’immediata applicabilità delle leggi nazionali laddove la Regione non
eserciti le sue potestà entro sei mesi con diverso testo. Ma è del tutto ovvio
che, di fronte al contesto appena riassunto, non bastano!
La nuova Assemblea regionale dovrà porsi come
assemblea costituente e questa funzione dovremo saperla proiettare anche sulla
prossima battaglia elettorale per il rinnovo del Parlamento nazionale. La
riforma dello Statuto è occasione per riprendere, su altre basi, il cammino di
rinnovamento dello Stato italiano e l’asse su cui costruire una nuova idea di
regionalismo, che non è quella del sovranismo leghista, ma quella del
funzionalismo democratico, di strumenti agili di governance del territorio che salvaguardino la partecipazione e la
condivisione delle popolazioni. Quello che urge per ristabilire un rapporto con
la popolazione, sempre più disincantata dall’inconcludenza dei sistemi di
governo, è il rapido passaggio verso una democrazia di sostanza e solidale,
verso una autonomia che ci riporti a una cittadinanza attiva e responsabile.
Di
fronte a queste urgenze anche il tentativo estemporaneo della rivoluzione di
Crocetta si è dimostrato insufficiente e non più riproponibile, anzi i limiti
di quel tentativo confermano l’urgenza di una svolta tanto profonda da
richiedere l’attivazione non del volontarismo singolare di qualche personalità
ma un processo consapevole e organizzato delle competenze della società
siciliana. Ancora di più questi limiti registrati. Crocetta è stato l’ultimo
tentativo di vivificare la politica siciliana senza mettere mano a una profonda
revisione della Regione e dei suoi rapporti con lo Stato e l’Europa. I limiti
registrati ci mostrano la velleitarietà di ulteriori proposte fondate sul
volontarismo di singole personalità o movimenti di opinione disorganizzati e portano
a dire che sia i vecchi modelli della destra sia il movimentismo grillino di
fronte alla sfida dei tempi soffrono degli stessi limiti.
La
dichiarazione di Micari di volere partire da una forte discontinuità con le
ultime esperienze di governo e di volere porre le competenze al centro di una
nuova politica per i territori è una buona premessa, ma nella composizione
delle liste deve essere presente la chiarezza della sfida e della necessità di
dare vita a una Assemblea regionale costituente che apre una nuova fase della
politica in Sicilia e nel Paese.
ROBERTO TAGLIAVIA
Palermo 14 settembre 2017
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