UMBERTO SANTINO
QUANTO al rapporto tra mafia e politica, ho
cercato di tracciare una storia ridotta all’osso. Fino agli anni Settanta del
secolo scorso, le cose erano molto semplici, prevedibili. Una mafia “a regime”,
con una signoria territoriale di tipo totalitario, un’accumulazione a gonfie
vele, legata ai traffici internazionali ma sempre ancorata alle convenienze
offerte dal contesto locale, intratteneva rapporti, continuativi e proficui per
entrambi, col partito che ha monopolizzato il potere per quasi mezzo secolo.
Nei primi anni Ottanta il quadro è mutato: i “corleonesi”, stanchi di fare
i parenti poveri, hanno dichiarato guerra ai palermitani, che avevano gestito
monopolisticamente potere e affari, lasciando sul terreno centinaia di morti, e
i mafiosi perdenti hanno preferito diventare collaboratori di giustizia,
mettendo in piazza i segreti. I delitti che hanno colpito uomini delle
istituzioni hanno innescato la reazione che ha portato alla legge antimafia e
al maxiprocesso. Le stragi del primi anni Novanta hanno portato a nuovi
provvedimenti, come il carcere duro. Le condanne di capi e gregari hanno
azzerato i centri di comando e decimato gli organici. Le manifestazioni
suscitate dall’indignazione per la violenza mafiosa, le attività delle
associazioni, il lavoro nelle scuole, le confische dei beni dei mafiosi, le
denunce delle estorsioni, hanno mostrato che la signoria sul territorio non era
più una dittatura subita passivamente. La mafia ha perso l’egemonia nel
traffico di droga, praticato da altri gruppi criminali, e con l’intrecciarsi di
questioni che vanno sotto il nome di geopolitica, come l’implosione del
socialismo reale e l’archiviazione del Pci, non ha più il ruolo di
baluardo contro il comunismo, che le garantiva l’impunità come forma di
legittimazione.
Sul piano politico, al posto dei partiti storici, spazzati via dalle
inchieste sulla corruzione, sono subentrati club personali, ditte padronali,
agenzie pubblicitarie, santoni e chierichetti del web, dilettanti allo
sbaraglio, giovanotti senza arte né parte che si improvvisano salvatori della
patria.
Forse la metafora più adatta per rappresentare questi mutamenti è quella
delle porte girevoli, che può valere sia per la mafia che per il contesto
politico. Scompaginata dalla dittatura dei “corleonesi” la tradizionale
struttura organizzativa, che vedeva alla base le famiglie, come corpi intermedi
i mandamenti, al vertice le commissioni e in testa il capo dei capi, negli
ultimi anni il comando è stato assunto, con reggenze incerte e precarie, dagli
uomini delle seconde file, in sostituzione dei capi carcerati. Questi
ultimi, una volta usciti dalle prigioni, vogliono tornare al comando, e nascono
frizioni, com’è dimostrato da qualche delitto degli ultimi mesi. Anche il
sistema relazionale è soggetto a mutazioni: nella ricerca di interlocutori con
cui fare accordi e gestire affari, il ventaglio delle possibilità, soprattutto
a livello politico-istituzionale, si è allargato, ma adesso ci sono più rischi
e meno certezze. E sono finiti i tempi d’oro della spesa pubblica. Sia
all’interno che all’esterno, si può dire che la mafia abbia installato le porte
girevoli.
Nel quadro politico, una volta archiviate le ideologie identitarie,
rottamate come ferri vecchi e sostituite con le affabulazioni dello
storytelling, i passaggi da uno schieramento all’altro sono all’ordine del
giorno, poiché l’unica cosa che conta è l’occupazione del potere. La politica
prima mediava tra interessi e valori, adesso deve districarsi tra
opportunismo e trasformismo.
Le elezioni sono un rito sempre meno frequentato, con la metà degli
elettori che praticano lo sciopero del voto. L’unico sciopero che può
permettersi chi ha perso il lavoro o non l’avrà mai. La metafora della porta
girevole varrà per la mafia e per la politica, ma certamente non vale per il
mercato del lavoro: con la crisi che si pensa di risolvere con la
delocalizzazione delle aziende, massimizzando profitti e licenziamenti, chi
esce non rientra più ed è condannato a far parte della massa di disoccupati,
precari, emarginati, che non ha nessuna rappresentanza. Potrebbe essere un
terreno su cui costruire un’alternativa credibile, ma non pare che ci sia
qualcuno che voglia misurarsi con questi temi nella campagna elettorale.
La Repubblica Palermo, 9 settembre 2017
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