ATTILIO BOLZONI
È UNA mafia da paura perché non ha paura di niente e di nessuno.
Perché si sente forte e invincibile, perché non ha mai trovato qualcuno che ha
provato a fermarla. Una mafia padrona in uno Stato che non c’è.
Le recenti statistiche di morte raccontano tanto ma non raccontano tutto
sulla cosiddetta mafia garganica, boss e mezzi boss di Cerignola, di Foggia, di
Manfredonia, di Vieste. Luoghi lontani, lontanissimi dal grande crimine
organizzato rappresentato dai Totò Riina siciliani o dai Piromalli e dai
Morabito calabresi, eppure questi sconosciuti Romito o De Palma o Li Bergolis —
i nomi dei protagonisti di una guerra che ha fatto 18 omicidi dall’inizio
dell’anno, erano stati 17 nel 2016 — sembrano diventati i “re” di un territorio
imprigionato dal terrore e avvolto nel silenzio. Una mafia che può contare sulla propria violenza che piega ogni resistenza
civile ma soprattutto può contare sull’assenza di un nemico, del nemico
naturale che dovrebbe contrastarla: lo Stato italiano. Troppo distratto per
occuparsi della “faida del Gargano“, troppo “piccola” la mafia imperante nella
parte settentrionale della Puglia per attirare uomini e mezzi occupati altrove
a combattere ben altre emergenze criminali. Troppo “locale”, forse anche troppo
stracciona. Tanti “troppo” che da ventiquattro mesi hanno trasformato una
striscia di terra in un campo di battaglia che è fuori controllo, è zona
franca, è cosa loro.
Qualche riga più su abbiamo scritto che le statistiche più nuove non
offrono un’analisi completa su ciò che sta accadendo nella provincia di Foggia,
ma c’è un dato molto significativo — svelato dal procuratore capo della
repubblica di Bari Giuseppe Volpe al nostro Giuliano Foschini — che spiega
quale “buco nero” è questa Puglia dove si scannano più che nella Chicago
degli Anni Trenta o nell’infernale Palermo della seconda guerra di mafia fra la
primavera del 1981 e l’autunno del 1983. Il procuratore capo Volpe dice che ci
sono 280 — duecentottanta — omicidi “irrisolti”, omicidi senza colpevoli, dal
1970 ad oggi. Vuol dire che non ci sono state indagini adeguate, vuol dire che
nessuno ha investigato su un fenomeno criminale con l’attenzione dovuta, vuol
dire che quella provincia foggiana dobbiamo considerarla un’area estranea,
staccata dal resto dell’Italia. Un posto con le sue leggi che non sono le
nostre leggi. Vogliamo far comandare lì e per sempre i Romito e i Li Bergolis?
Vogliamo che siano loro, solo loro, i signori del territorio come in effetti lo
sono stati in questi ultimi anni?
Una volta li chiamavano “i porcai” perché avevano allevamenti di maiali e
campavano anche di quello. Ma i “porcai”, piano piano e nell’indifferenza più
totale, sono diventati una forza criminale che può permettersi scorribande come
quella di ieri. Non sono più “porcai” ma trafficanti di droghe che hanno un
rapporto privilegiato con i clan albanesi che abitano difronte, sono
riciclatori di denaro sporco investito nelle strutture alberghiere del Gargano,
sono estorsori che succhiano il sangue agli operatori turistici di una delle
coste più belle della Penisola.
Hanno fatto il “salto di qualità”. Senza ostacoli, senza problemi. Liberi
di fare agguati, inseguimenti, esecuzioni. Ha ragione Michele Merla, il sindaco
di San Marco in Lamis, a dire: «Solo chi non vuole non vede quello che sta
succedendo». Forze di polizia a ranghi ridotti, la procura distrettuale di Bari
a distanza di sicurezza, Foggia che non è Italia e non è Europa ma solo una
sacca infetta. Così quelli che chiamavano “i porcai” si possono scatenare. Così
gente come i Romito e i Libergolis diventano mafia.
La Repubblica, 10 agosto 2017
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