UMBERTO SANTINO
Nel ventiseiesimo anniversario dell’assassinio di Libero Grassi, se non
vogliamo limitarci a un rito stanco e ripetitivo, gli dobbiamo un atto di
maturità e di lealtà. Dalla sua denuncia in quasi totale solitudine sappiamo
che molte cose sono cambiate: i commercianti e gli imprenditori che denunciano
non sono più un’eccezione, anche se non si può dire che costituiscano la
regola; sono nate associazioni antiracket in buona parte dell’Italia, c’è un
impegno delle istituzioni e la lotta contro le estorsioni è diventata una delle
forme più significative dell’antimafia e più ricche di risultati. Ma negli
ultimi anni un percorso che sembrava decisamente avviato a produrre un profondo
mutamento nei comportamenti degli operatori economici e dei cittadini,
consapevoli che il pizzo riguarda anche loro, mostra incrinature e pone
problemi. Affrontarli, con un confronto franco e aperto, mi pare il modo
migliore per ricordare Libero Grassi.
Il movimento antiracket, tenendo conto della pervasività del fenomeno
estorsivo e della complessità dei rapporti che da esso scaturiscono, deve
confrontarsi con una società in cui non è facile distinguere tra chi compie
scelte limpide e definitive e chi, per origini familiari, per legami forti e
codici culturali sedimentati, non riesce a dare un taglio netto. Si parla di
figure borderline e si pone un dilemma: emarginarle e condannarle a una
sudditanza irredimibile o accompagnarle, con intelligenza e con gli occhi ben
aperti, in un percorso di liberazione? Non è un problema nuovo, ma è antico
quanto l’antimafia. Se ne discusse già ai tempi dei Fasci siciliani,
accogliendo nelle loro file pregiudicati e offrendo loro una possibilità di
affrancarsi coinvolgendoli in un progetto collettivo. Per andare a tempi più
recenti, quando alcune donne del popolo palermitano si sono costituite parti
civili in processi di mafia, a cominciare dal maxiprocesso, rompendo con la
cultura della passività e della soggezione, e hanno avuto il sostegno solo di
pochissimi, mentre gran parte dello schieramento antimafia le ha isolate,
avanzando riserve sulla personalità delle vittime, non si è dato un buon
segnale: invece di incoraggiare altri a seguire il loro esempio, si è avuto
l’effetto di inchiodarli a un destino già segnato.
Per alcuni l’antimafia sembra essere un club esclusivo, una forma di
perbenismo. Ma non va dimenticato che personaggi mafiosi hanno cercato di
cavalcare la protesta popolare e non c’è da sorprendersi se ora non hanno
problemi a travestirsi da antimafiosi.
I protagonisti dell’azione antimafia sono soggetti diversi: comitati,
centri, associazioni, organizzazioni strutturate e gruppi informali, che
vengono rappresentati come soggetti della società civile, un’espressione che
nel linguaggio contemporaneo ha indicato l’insieme di raggruppamenti e
relazioni che agiscono e si sviluppano al di fuori dei poteri istituzionali,
con i partiti politici che avrebbero fatto da ponte. L’accento posto sullo
strapotere dei partiti, che avrebbero monopolizzato e saccheggiato i poteri
pubblici, ha portato a considerare la società civile come il mondo nuovo
che scalzava la partitocrazia e rigenerava la democrazia. La crisi, fino alla
sparizione, della forma partito, sostituita da clan personali, rilancerebbe il
ruolo alternativo della società civile. È un’illusione. La crisi della
democrazia, poiché di questo si tratta, riguarda non solo le forme storiche di
rappresentanza, come il partito e il sindacato, ma anche le varie articolazioni
della società civile, afflitte anch’esse da vizi non minori: il leaderismo, il
protagonismo, la corsa alla spartizione dei fondi pubblici. La “società
liquida” è un mare abitato da questi pesci.
Rispetto ad altre forme di mobilitazione sociale, l’azione antimafia ha una
sua peculiarità, coniugando la lotta contro le mafie, i poteri criminali, con
la lotta contro le forme di criminalizzazione del potere, le interazioni
tra crimine e istituzioni che hanno segnato la storia del nostro Paese e
spiegano la persistenza del fenomeno mafioso e di altri fenomeni ad esso
assimilabili. L’antimafia vuole essere insieme coscienza critica e pratica di
mutamento, ma non è vaccinata contro involuzioni e tentazioni a cui non sempre
è facile resistere. Gli avvenimenti degli ultimi anni sono casuali, meri
incidenti di percorso, o pongono interrogativi di fondo? Qualche esempio:
proclami antimafia a cui non corrispondono comportamenti coerenti, protocolli
di legalità e codici etici che rimangono sulla carta, rapporti con le
istituzioni che si risolvono in scambi di favori, le associazioni fantasma,
l’attivismo senza riflessione. Ma un conto è la denuncia puntuale e
documentata, un altro la generalizzazione che mira a delegittimare, con effetti
che possono essere disastrosi.
Libero Grassi parlava di “qualità del consenso”, riferendosi alle forze
politiche, ma il discorso vale anche per l’antimafia e la società civile.
Appiattirsi sull’esistente, ritagliarsi uno spazio, riservarsi corsie
preferenziali, assicurarsi scampoli di rendite, vuol dire gareggiare per
ottenere il consenso al livello più basso. Andare controcorrente, non per
partito preso e per vocazione minoritaria, ma per aprire prospettive di
cambiamento, è un rischio e una scommessa. Se riteniamo che l’esempio di Libero
Grassi abbia ancora un senso, vale la pena correre questo rischio e accettare
questa scommessa. E per tenere i piedi per terra, che diciamo all’imprenditrice
Magda Scalisi, che da quando gestisce il rifugio Parco dei Nebrodi riceve
continue minacce, e al restauratore di Brancaccio che ha fatto arrestare gli
estorsori, ha perso il lavoro e si sente uno sconfitto? Il tempo degli eroi
solitari non è ancora finito?
La
Repubblica Palermo 27 agosto 2017
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