MAURIZIO BETTINI
Perché si cercò di screditare il personaggio che Virgilio volle iniziatore
dell’epopea di Roma
Giorgio Caproni si trovò di fronte a Enea in Piazza Bandiera, a Genova. La
città era ancora martoriata dalle bombe e quel piccolo monumento — l’eroe che
sulle spalle porta il vecchio Anchise e conduce per mano il piccolo Iulo — gli
apparve come un tragico simbolo del presente: uomini che da un passato di certa
distruzione “transitavano” verso un futuro pieno di incertezze, proprio come
era accaduto all’eroe di Virgilio. Enea l’esule, Enea il pius, Enea
perseguitato dall’odio di una divinità. Ma cosa avrebbe pensato, Caproni, se
quel monumento gli fosse invece apparso coperto da scritte ostili — Enea
vigliacco, traditore,
assassino! Non è accaduto, per fortuna, eppure sarebbe potuto accadere. Già
nell’antichità, infatti, circolava il sospetto che Enea non fosse affatto
l’eroe valoroso e “pius” descritto da Virgilio.
Né si poteva negare che
all’origine della sua vicenda ci fosse qualcosa che poteva dare adito a
sospetti: in altre parole, perché lui? Troia era stata distrutta dalle fiamme,
i suoi abitanti uccisi o resi schiavi — Enea però no, era sopravvissuto
all’eccidio. Come era stato possibile? Certo, fin dal secondo verso del poema
Virgilio si era preoccupato di fugare ogni dubbio in proposito: Enea era «fato
profugus», afferma il poeta, se era scampato alla fine di Troia era stato per
il volere del fato, i cui disegni lo destinavano a fondare Roma.
Ma a quanto pare questa giustificazione non era bastata. Lo si vede dai
commenti antichi all’Eneide, in cui più volte il sospetto si affaccia. Per
esempio, ecco la scena in cui Enea, a Cartagine, vede rappresentata in un
affresco la guerra di Troia: ci sono i guerrieri greci e “mescolato” in mezzo a
loro lui stesso, Enea. Servio, il commentatore del poema, nota: «Forse allude
copertamente al tradimento». Il poeta voleva dire che Enea si era “mescolato”
ai guerrieri greci perché stava combattendo contro di loro — ma se invece
avesse voluto far intendere che Enea stava tramando con i nemici? Nel seguito
della nota Servio esclude questa possibilità, ma eccolo tornare sul tema
allorché Virgilio, nel secondo libro, descrive la casa di Enea a Troia: sorgeva
in un luogo appartato, narra il poeta, circondata di alberi. Ecco perché, nota
Servio, l’eroe non ha partecipato fra i primi alla battaglia! Non perché fosse
un traditore, ma perché la posizione della sua dimora gli aveva impedito di
rendersi subito conto di quanto stava accadendo.
Allusioni, sospetti, interpretazioni capziose si moltiplicano intorno alla
figura dell’eroe. Sua moglie, Creusa, era morta durante l’eccidio. Per quale
motivo? Perché il marito l’aveva abbandonata, è chiaro. Il disertore
dunque è anche l’assassino di sua moglie. A un certo punto contro Enea
scenderanno in campo anche i cristiani. A Roma infatti l’eroe era
divenuto dio, «deus indiges». Questo non poteva piacere a Tertulliano. Lo
chiamano “pius”! esclamava. Uno che aveva tradito la sua città! A Roma infatti
con “pietas” si designava proprio l’attaccamento alla patria, oltre che quello
verso il padre. E invece il “pio” Enea l’aveva tradita.
Col passare del tempo gli attacchi alla figura dell’eroe si faranno sempre
più espliciti. Sul finire dell’evo antico comparvero due curiose operette,
il Diario della Guerra di Troia di Ditti Cretese, la Distruzione
di Troia di Darete Frigio. La prima pretendeva di essere la testimonianza
diretta di un cretese, Ditti, che aveva combattuto a Troia con gli Achei; la
seconda un diario della guerra redatto da un Troiano, anche lui testimone
oculare degli eventi. Ebbene, sia nella versione di parte greca che in
quella di parte troiana Enea è descritto come un personaggio ambiguo, che patteggia
con i Greci la propria salvezza: assieme ad Antenore, un altro troiano scampato
all’eccidio, la cui fuga viene giustificata con l’esplicito tradimento
compiuto. Queste due incredibili operette furono prese molto sul serio nel
Medioevo e fornirono ricca materia ai cosiddetti romanzi del ciclo troiano che,
fra XII e XIV secolo, furono assai popolari in Europa. Ed ecco che
nel Romanzo di Troia, composto da Benoit de Saint-Maure, Enea è
identificato direttamente con Satana. Una ben singolare evoluzione, per un eroe
che si era meritato più d’ogni altro l’epiteto di “pius”.
A questo punto una domanda si impone: ma perché tanto accanimento contro
Enea? Forse la risposta non è difficile: perché il suo mito — oggi diremmo la
sua narrazione — era troppo importante, stava alla base stessa della cultura
romana. Enea era nientemeno che l’antenato di Roma e, insieme, quello di Cesare
e di Augusto (la “gens Iulia” pretendeva di discendere da Iulo, figlio di
Enea), era Enea che aveva dato alla Città i valori che costituivano il seme
stesso della sua potenza. Di conseguenza per screditare Roma si rovesciava
direttamente il mito che più la rappresentava.
In realtà non era la prima volta che questo genere di “contro- storie”,
come le ha definite Amos Funkestein, venivano messe in opera per colpire al
cuore l’identità di un avversario. Come si sa la cultura ebraica ha uno dei
suoi pilastri negli eventi dell’Esodo: il popolo eletto che, sotto la guida di
Mosé, sfugge alla schiavitù egiziana e per volere di Dio raggiunge la terra
promessa. Già nell’antichità però circolava una “contro- storia”, a tutti gli
effetti, di questa narrazione. In realtà, si diceva, gli Ebrei sarebbero stati
solo un gruppo di appestati, scacciati dal faraone d’Egitto perché, con
l’empietà dei loro culti, avevano provocato l’ira degli dèi e suscitato la
pestilenza. Siamo di fronte a un rovesciamentototale, gli eroi che si erano
liberati dalla schiavitù sono divenuti degli scacciati, il popolo più amato da
Dio un’accozzaglia di empi e di appestati. Il fatto è che, quando si vuole
screditare un avversario, le “contro- storie” offrono uno strumento tanto
insidioso quanto potente: per questo hanno avuto e hanno tanta fortuna. Anche
oggi le vediamo spuntare ogni mo- mento intorno a noi, favorite dall’inaudita
potenza dei social e della rete.
Se le navi delle Ong, che tirano a bordo i disperati del Mediterraneo,
vengono trasformate in “taxi del mare”, e i volontari che vi operano in
“complici degli scafisti”, non siamo forse di fronte all’ennesima
“contro-storia”? E temiamo che non sia neppure l’ultima.
I dubbi si sollevarono già dall’antichità al Medioevo e qualcosa di simile
accade oggi
La Repubblica, 18 agosto 2017
Nessun commento:
Posta un commento