SALVATORE COSTANTINO
Nell’imminenza della ripresa delle attività nelle scuole e nell’università
conviene riflettere ancora sugli episodi di decapitazione della statua di
Giovanni Falcone nella scuola a lui intitolata allo Zen, e il fuoco appiccato
ad un cartellone con la sua immagine presso la scuola “Alcide De Gasperi”.
Questi episodi sono ancora espressione , nonostante i recenti successi dello
Stato, di una persistente e diffusa subcultura di derivazione mafiosa fondata
sulla violenza, l’illegalità, la corruzione, la vendetta, la prevaricazione, la
furberia, l’omertà. Per questo è necessario dare maggiore concretezza,
diffusione, profondità e continuità alle iniziative contro la subcultura della
violenza, per la legalità e il rispetto delle regole. Queste categorie
comportamentali si sono sedimentate nel tempo anche grazie alle aspettative di
impunità e alla negazione del diritto e dello Stato. Leonardo Sciascia ritornò
più volte, e con diversità di accentuazioni, sul tema della violenza e sul
carattere siciliano. Il suo punto di partenza è la non violenza dei siciliani.
Ma ad essa si accompagnerebbero fenomeni radicati di chiusura, di tendenza
all’isolamento sui quali ha fatto presa questa subcultura favorendo una
violenza esterna che, come dice lo stesso Sciascia, «ha quasi la garanzia
dell’accettazione e della impunità». L’uso della violenza «sciolto» da
«qualsiasi controllo sia statale, sia da parte delle classi egemoni» diventa
«fatto puro», «sistema di atti», di azioni umane che si impone senz’altra
giustificazione, senza connessioni con il resto.
Il dibattito di oggi sui successi repressivi dello Stato, sulle mafie e
sulla corruzione, sui cambiamenti positivi stessi di Palermo, sulle
proposte di politiche per la legalità e lo sviluppo sembrano sottovalutare,
per lo più, questo dato. Che è invece importante al fine di rendere meno
superficiali le analisi sulla qualità e la profondità effettive dei
cambiamenti. E’ necessario, dunque, non fermarsi al solo dato simbolico, e
guardare concretamente al che fare. La subcultura di derivazione mafiosa
consiste in sistemi di pensiero e di comportamento, disvalori, costumi,
pratiche e codici di interazione sociale, stili di vita, modi di vedere e di
fare. Permea di sé la vita di tutti i giorni. In quasi due secoli di
presenza, le mafie hanno lasciato tracce profonde nei comportamenti dai quali e
possibile, ma assai difficile, liberarsi. Si può dire che la mafia come
organizzazione ha diffuso una sua propria subcultura che ha ibridato
istituzioni, politica, economia, cultura, società. L’iniziativa per la legalità
e lo sviluppo, per essere davvero efficace deve essere capace, quindi, di
penetrare molecolarmente e non episodicamente, nelle mille pieghe sociali nelle
quali si diffonde ciò che Gaetano Mosca definiva come “spirito di mafia”.
L’illustre costituzionalista e scienziato della politica siciliano, nel cuore
dell’analisi della mafia, si poneva il difficilissimo problema di come
liberarsi di questa subcultura affermando acutamente: «Disimparare è una cosa
molto più difficile dello “imparare».
Oggi, direbbe Mosca che la mafia ha diffuso e cercato di cementare un
“capitale sociale” negativo che condiziona l’orientamento dell’azione in
direzione di disvalori e di codici della violenza, della prevaricazione,
dell’omertà, dell’impunità. È chiaro che se le politiche pubbliche contro la
mafia, per la legalità e lo sviluppo, non saranno capaci di incidere
profondamente in questo capitale sociale negativo, se cioè non saranno
integrate nel territorio e multidimensionali, verranno vanificati tanti
successi e risultati ottenuti. Solo la cultura, la formazione, la corretta
informazione possono porsi come rovesciamento delle relazioni fondate sulla
violenza e la prevaricazione per costruire capitale sociale positivo (reti relazionali,
cooperazione, norme, innovazione, fiducia reciproca, onorabilità, rispetto
per la dignità umana), che consentano ai membri di una comunità di agire
assieme in modo più efficace nel raggiungimento di obiettivi condivisi.
Educare alla legalità, alla trasparenza, alla partecipazione, all’etica
pubblica. L’azione coordinata di contrasto deve mirare, dunque, a mettere in
campo politiche pubbliche adeguate e integrate, che realmente aggrediscano le
reti corruttive e le mafie in modo sistematico e multidimensionale, oltre che
sul piano della repressione penale anche su quello della formazione e
dell’educazione, della trasparenza, della partecipazione e delle buone pratiche
etiche, economiche, politiche e sociali.
In questa direzione sembra muoversi il decreto legge del governo sul
Mezzogiorno che contiene una misura educativa innovativa legando il “reddito di
inclusione” a famiglie povere alla frequenza scolastica e incentivando l’azione
educativa nelle aree di esclusione sociale, “nonché ad alto rischio di adesione
alla criminalità organizzata e non”. In questa direzione vuole andare il corso
di prevenzione e contrasto delle mafie e delle corruzione che l’Università di
Palermo svolge ormai da anni insieme con altri Istituti e associazioni, e
continuando la proficua collaborazione tra rappresentanti della formazione e
della ricerca, delle istituzioni, dell’associazionismo delle forze dell’ordine,
dei media, dell’Autorità nazionale Anticorruzione.
La Repubblica Palermo, 26 agosto 2017
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