sabato, agosto 26, 2017

Cosa resta della subcultura mafiosa

SALVATORE COSTANTINO
Nell’imminenza della ripresa delle attività nelle scuole e nell’università conviene riflettere ancora sugli episodi di decapitazione della statua di Giovanni Falcone nella scuola a lui intitolata allo Zen, e il fuoco appiccato ad un cartellone con la sua immagine presso la scuola “Alcide De Gasperi”. Questi episodi sono ancora espressione , nonostante i recenti successi dello Stato, di una persistente e diffusa subcultura di derivazione mafiosa fondata sulla violenza, l’illegalità, la corruzione, la vendetta, la prevaricazione, la furberia, l’omertà. Per questo è necessario dare maggiore concretezza, diffusione, profondità e continuità alle iniziative contro la subcultura della violenza, per la legalità e il rispetto delle regole. Queste categorie comportamentali si sono sedimentate nel tempo anche grazie alle aspettative di impunità e alla negazione del diritto e dello Stato. Leonardo Sciascia ritornò più volte, e con diversità di accentuazioni, sul tema della violenza e sul carattere siciliano. Il suo punto di partenza è la non violenza dei siciliani. Ma ad essa si accompagnerebbero fenomeni radicati di chiusura, di tendenza all’isolamento sui quali ha fatto presa questa subcultura favorendo una violenza esterna che, come dice lo stesso Sciascia, «ha quasi la garanzia dell’accettazione e della impunità». L’uso della violenza «sciolto» da «qualsiasi controllo sia statale, sia da parte delle classi egemoni» diventa «fatto puro», «sistema di atti», di azioni umane che si impone senz’altra giustificazione, senza connessioni con il resto.

Il dibattito di oggi sui successi repressivi dello Stato, sulle mafie e sulla corruzione, sui cambiamenti positivi stessi di Palermo, sulle proposte di politiche per la legalità e lo sviluppo sembrano sottovalutare, per lo più, questo dato. Che è invece importante al fine di rendere meno superficiali le analisi sulla qualità e la profondità effettive dei cambiamenti. E’ necessario, dunque, non fermarsi al solo dato simbolico, e guardare concretamente al che fare. La subcultura di derivazione mafiosa consiste in sistemi di pensiero e di comportamento, disvalori, costumi, pratiche e codici di interazione sociale, stili di vita, modi di vedere e di fare. Permea di sé la vita di tutti i giorni. In quasi due secoli di presenza, le mafie hanno lasciato tracce profonde nei comportamenti dai quali e possibile, ma assai difficile, liberarsi. Si può dire che la mafia come organizzazione ha diffuso una sua propria subcultura che ha ibridato istituzioni, politica, economia, cultura, società. L’iniziativa per la legalità e lo sviluppo, per essere davvero efficace deve essere capace, quindi, di penetrare molecolarmente e non episodicamente, nelle mille pieghe sociali nelle quali si diffonde ciò che Gaetano Mosca definiva come “spirito di mafia”. L’illustre costituzionalista e scienziato della politica siciliano, nel cuore dell’analisi della mafia, si poneva il difficilissimo problema di come liberarsi di questa subcultura affermando acutamente: «Disimparare è una cosa molto più difficile dello “imparare».
Oggi, direbbe Mosca che la mafia ha diffuso e cercato di cementare un “capitale sociale” negativo che condiziona l’orientamento dell’azione in direzione di disvalori e di codici della violenza, della prevaricazione, dell’omertà, dell’impunità. È chiaro che se le politiche pubbliche contro la mafia, per la legalità e lo sviluppo, non saranno capaci di incidere profondamente in questo capitale sociale negativo, se cioè non saranno integrate nel territorio e multidimensionali, verranno vanificati tanti successi e risultati ottenuti. Solo la cultura, la formazione, la corretta informazione possono porsi come rovesciamento delle relazioni fondate sulla violenza e la prevaricazione per costruire capitale sociale positivo (reti relazionali, cooperazione, norme, innovazione, fiducia reciproca, onorabilità, rispetto per la dignità umana), che consentano ai membri di una comunità di agire assieme in modo più efficace nel raggiungimento di obiettivi condivisi.
Educare alla legalità, alla trasparenza, alla partecipazione, all’etica pubblica. L’azione coordinata di contrasto deve mirare, dunque, a mettere in campo politiche pubbliche adeguate e integrate, che realmente aggrediscano le reti corruttive e le mafie in modo sistematico e multidimensionale, oltre che sul piano della repressione penale anche su quello della formazione e dell’educazione, della trasparenza, della partecipazione e delle buone pratiche etiche, economiche, politiche e sociali.
In questa direzione sembra muoversi il decreto legge del governo sul Mezzogiorno che contiene una misura educativa innovativa legando il “reddito di inclusione” a famiglie povere alla frequenza scolastica e incentivando l’azione educativa nelle aree di esclusione sociale, “nonché ad alto rischio di adesione alla criminalità organizzata e non”. In questa direzione vuole andare il corso di prevenzione e contrasto delle mafie e delle corruzione che l’Università di Palermo svolge ormai da anni insieme con altri Istituti e associazioni, e continuando la proficua collaborazione tra rappresentanti della formazione e della ricerca, delle istituzioni, dell’associazionismo delle forze dell’ordine, dei media, dell’Autorità nazionale Anticorruzione.

La Repubblica Palermo, 26 agosto 2017

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